LA VITTORIA DELLA RAGIONE
Quando l’opinione pubblica impiega l’arma della protesta civile, neanche un governo tecnico – impegnato a imporre pesanti sacrifici a tutti i cittadini per salvare il Paese – può sottrarsi al dovere di rispettare la volontà popolare. Si impedisce così un misfatto, una rapina o uno scippo ai danni dello Stato. E si individua un’importante risorsa a cui attingere legittimamente, per ridurre o almeno alleggerire il peso della manovra economica e fiscale sulle spalle degli italiani. Non è una ritorsione né tantomeno una vendetta contro nessuno. Ma piuttosto un atto di giustizia e di equità nell’interesse esclusivo dei contribuenti, chiamati ora a sostenere il salvataggio della finanza pubblica. In una situazione come questa, non si poteva più pensare di “regalare” un pezzo rilevante dell’etere, e quindi del patrimonio statale, favorendo gli stessi soggetti – in primis Rai e Mediaset – che già sfruttano da tempo le frequenze televisive, pagando canoni di concessione irrisori e lucrando lauti ricavi su un bene che appartiene a tutti noi. Sarà un’asta a stabilire adesso quanto valgono effettivamente le frequenze residue, a chi e come dovranno essere assegnate. Ma nulla vieta che, in mancanza di offerte adeguate da parte delle emittenti tv, la gara possa essere aperta anche agli operatori telefonici e quindi aggiudicata al miglior offerente.
Poco importa ormai che il governo precedente, rappresentato da Berlusconi e dal ministro Romani, avesse deciso di avviare la procedura del cosiddetto “beauty contest” (o concorso di bellezza), per pilotare in realtà la destinazione delle frequenze ai “signori dell’etere”. Vale a dire in buona parte al medesimo premier-tycoon e alla sua azienda. Il dovere di “autotutela”, come ricorda un parere giuridico dell’amministrativista Gianluigi Pellegrino, obbligava i successori a riaprire la questione per cercare di ottenere il massimo possibile, revocando o modificando il provvedimento precedente. E bisogna dare atto ai commissari di minoranza all’interno dell’Autorità sulle Comunicazioni, insieme ad alcuni irriducibili rappresentanti dell’opposizione, di aver contrastato apertamente e coerentemente quella improvvida decisione.
Era il 31 agosto scorso quando la direzione di questo giornale pubblicò in prima pagina un commento a firma del sottoscritto, intitolato “La truffa delle frequenze tv nel Far West dell’etere”. In quell’articolo, fra l’altro si leggeva: “È come se l’Italia avesse a disposizione un tesoro nascosto, una miniera invisibile, un immenso giacimento d’oro o di petrolio, ma non volesse sfruttarlo come si deve per ottenere il massimo rendimento. E anzi, invece di cederlo al migliore offerente, lo regala a chi già vi ha messo le mani sopra. Ma, prima di arrivare a vendere i gioielli di famiglia, uno Stato onesto e oculato non dovrebbe cercare di affittare a un giusto prezzo i beni di sua proprietà ?”.
Se lo ricordiamo oggi non è per rivendicare meriti o per vanteria di testata, ma piuttosto per dire che non abbiamo aspettato la caduta del governo Berlusconi e l’insediamento del governo Monti per porre il problema all’ordine del giorno. A quell’epoca, era appena partita l’asta per le frequenze della banda larga di ultima generazione su una base di 2,3 miliardi di euro e lo stesso ministro Romani dichiarò che sarebbe potuta arrivare anche a tre: alla fine, invece, s’è chiusa a 3,5 miliardi.
Ora dovrà essere proprio la nuova gara a titolo oneroso, secondo gli ordini del giorno presentati alla Camera da Pd, Idv e Lega e accolti con un opportuno ripensamento dal governo in carica, a stabilire il valore delle nuove frequenze. In ogni caso sarà un prezzo di mercato, trasparente, frutto dell’incrocio fra la domanda e l’offerta. Non un “regalo”, una cessione a costo zero, una dismissione gratuita. E vogliamo essere sicuri fin d’ora che il ministro Passera, forte di una lunga esperienza di manager e risanatore, non procederà comunque a una svendita di Stato.
Il governo Monti rischierà forse di cadere in Parlamento su questo terreno minato? Non si può escludere. Ma allora risulterà chiaro, anche a chi non vuol vedere e non vuol sentire, che si pregiudica l’interesse nazionale e si compromette il risanamento del Paese per ragioni private, di bottega o di portafoglio.
Il partito (trasversale) della televisione ha già fatto troppi danni al Paese nell’ultimo quarto di secolo, per avallare un voto di scambio tra il risanamento e le frequenze. E non soltanto in termini economici. I guasti peggiori sono stati prodotti sul piano del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza. Ma forse ancor più nella cultura e nel costume della società italiana; in quella convivenza civile che – come si vede purtroppo nelle aule parlamentari e fuori – diventa di giorno in giorno sempre più incivile, anche per effetto dell’imbarbarimento televisivo.
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