La Storia si leva il cappello

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Chi ha conosciuto e amato Praga fra il 21 agosto del 1968 e il 17 novembre del 1989 conosce e ama Vaclav Havel in un modo tutto speciale. Anche se magari non lo ha incontrato, non lo ha sentito parlare, forse non ha neppure letto le sue poesie o i suoi drammi.
Il fatto è che in quei ventuno anni, l’età  di un ragazzo che arriva all’età  adulta, Praga e Havel hanno vissuto la stessa storia con gli stessi dolori, le stesse inadeguatezze, le stesse irrequietudini e speranze. La città  sembrava addormentata nelle cupezze del tardo comunismo di Gustav Husak e della nomenklatura che si vendicava della Primavera del ’68. Ma se appena appena si grattava la superficie, se si percorrevano, certe sere d’estate, i vicoli della città  vecchia o le salite di Mala Strana, ci si accorgeva che sotto la morta bellezza dell’antica capitale brulicava la vita. Nei teatrini improvvisati e un po’ clandestini, nelle vinarne alla moda e nelle birrerie da vecchi ubriaconi, nelle sale da concerto, in tante case private dove si invitavano anche gli sconosciuti e gli stranieri, e se magari si intrufolava qualche spia, pazienza. Si incontravano poeti, ingegneri e rockettari. Scrittori pubblicati solo in Germania e in Austria, economisti che lavoravano in fabbrica, filosofi che coltivavano di nascosto i rapporti con la scuola di Francoforte, attori cui era proibito recitare roba “seria” e ragazzi che sapevano dei Rolling Stones e di Frank Zappa.
Il primo clamoroso episodio di dissidenza avvenne nel ’76, quando molti intellettuali Havel era fra loro protestarono in difesa di un gruppo rock, i Plastic People emuli dei Velvet Underground di Lou Reed. Praga non era morta: era una grande città  europea tagliata fuori dall’Europa.
Questa separatezza, costretta a scivolare nella genialità  per non diventare pazzia e disperazione, fu il ventre nel quale visse, in quegli anni, Havel. «Nemico del popolo» per il solo fatto di essere nato in una famiglia borghese e, forse, un poco tedeschizzante. Escluso dalle scuole superiori e dall’università  che lui avrebbe voluto. Scrittore non pubblicabile, drammaturgo senza scena, costretto a fare il macchinista per frequentare un teatro, il Na Zabradlì (Alla Ringhiera) in perenne sospetto di eresia.
Dopo la breve illusione con Dubcek, quando avrebbe voluto fondare un partito da affiancare ai comunisti sul versante democratico, bollato come dissidente per così dire “ufficiale”, e in quanto tale arrestato più volte, costretto in una detenzione tanto dura da provocargli l’infezione respiratoria che si sarebbe portato fino alla morte. Insomma: un uomo represso e prigioniero, come la sua Cecoslovacchia “normalizzata” dalle truppe del Patto di Varsavia e dalle durezze brezneviane.
E però liberissimo. Neppure nei momenti peggiori, il regime riuscì a soffocarne la voce e la presenza. A metà  degli anni 70, Havel, poco più che quarantenne, era conosciuto nella sua patria più di qualsiasi esponente della nomenklatura. Ed era famoso anche all’estero, dove il movimento di Charta ‘77, creatura di cui era stato il padre più famoso, diventò presto il referente di ogni speranza di riforma democratica nell’allora impero sovietico. Per la sua liberazione, dopo l’ennesimo arresto e una pericolosa condanna, si mobilitò, in Europa occidentale, un fronte di intellettuali e di politici ampio come non si era mai visto.
Era tanto popolare, Havel, e tanto rispettata e ammirata era Charta ‘77 perché si intuiva che l’obiettivo dell’uomo e del movimento era rompere la separatezza di Praga, della Cecoslovacchia, di tutti i Paesi centro-orientali da quell’insieme di storia, culture, tradizioni, lingue, abitudini, gusti, senso comune che fanno quello che chiamiamo Europa.
La vera “normalizzazione” non era l’oscena pretesa con cui era stata schiacciata in Cecoslovacchia la speranza del ’68, ma, per così dire, una normalizzazione senza virgolette: il ritorno alla normalità , il superamento della rottura provocata dagli orrori della guerra, la ricomposizione del continente in una verità  nella quale non si dovesse più, come i popoli dell’est erano stati costretti a fare, «vivere nella menzogna». L’idea dell’unità  europea, nell’ambito di una più ampia unità  occidentale in cui un ruolo importante è riconosciuto agli Usa, è stato il vero fil rouge della sua politica, ha fatto tutt’uno con la resistenza all’arbitrio della dittatura, con la battaglia per la democrazia e il rispetto dei diritti civili e umani, in un ripudio non solo del comunismo, ma anche del nazionalismo e delle insidie delle pretese “radici” affondate in egoismi colorati di etnìa.
Il momento più triste, nella vita di Havel dopo la conquista della libertà , fu il 1993, l’anno della separazione tra la Repubblica cèca e la Slovacchia, separazione che lui, da presidente della Cecoslovacchia, non voleva e che giudicò un vile cedimento a ragioni della Storia che lui non condivideva: il sovvertimento di una unità  voluta soprattutto, dopo la prima guerra mondiale, per tenere a bada le minoranze, tedesca in Boemia e ungherese in Slovacchia. Come se la storia dell’Europa non avesse insegnato, specie proprio da quelle parti, la ricchezza delle diversità .
Ebbe questo segno la ricomposizione, il «ritorno in Europa» oltre che la conquista delle libertà  democratiche, il momento della liberazione dal regime, nell’autunno dell’89, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino.
Va detto che, come lui stesso ammise, Havel fu còlto di sorpresa dagli eventi. La grande manifestazione che il 17 novembre a Praga dette il via alla Rivoluzione di velluto rompeva un po’ lo schema, più “politico”, con cui gli uomini di Charta ‘77 avevano immaginato il percorso dalla dittatura alla democrazia. E però la saldatura fu immediata.
Gli slogan degli studenti che il 17 novembre partirono dall’Università  Carlo e conquistarono la città  coniugavano il ripudio del regime con la speranza che ci fosse già  un’alternativa. «I dittatori sono al Castello» gridavano all’inizio, indicando la collina di Hradcany dove avevano sede le autorità  dello stato e del partito e lo slogan presto diventò: «Havel al Castello».
Da quel momento la vicenda dell’uomo che nelle sue opere per il teatro aveva portato le ragioni della dignità  individuale, è diventata la storia. Poco più di un mese dopo la rivoluzione Havel viene insediato alla presidenza, con l’assenso del partito comunista, dal governo provvisorio. L’anno successivo viene confermato dalle prime elezioni libere e resterà  quasi ininterrottamente presidente della Cecoslovacchia e poi della Repubblica cèca fino al 2003.
Con il suo vezzo di non prendere troppo sul serio la sua propria vita così tremendamente seria, dalle durezze del carcere ai tormenti della malattia che lo ha tenuto per anni sul filo della morte, Havel negli ultimi anni si raccontava come una specie di dilettante della politica e della vita pubblica: «Metto il naso dappertutto diceva ma in realtà  non so fare quasi nulla: talvolta mi occupo di filosofia ma non sono un filosofo; scrivo di letteratura ma non sono un critico e non parliamo del mio senso musicale, che fa ridere. In fondo non sono un vero esperto neppure in quello che considero il mio mestiere: scrivere per il teatro». Simpatica manifestazione di modestia tipica dell’uomo che però una cosa sicuramente l’ha fatta molto bene: la politica, nel senso più alto e profondo.


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