La sfida delle grandi potenze si combatte a colpi di “bit”

by Sergio Segio | 6 Dicembre 2011 7:27

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Washington. Lo disse per primo Nicholas Negroponte, il profeta della new age informatica: «Vincerà  la prossima guerra non chi avrà  più atomi, ma chi avrà  più bit», la molecola dell’universo digitale. E se la prospettiva del campo di battaglia senza più esseri umani in lotta, di guerre condotte nel flusso silenzioso di “pacchetti” di bit fra server, satelliti, robot volanti, centrali, e reattori nucleari che possono essere distrutti anche senza sparare un missile, come accadde già  in Iran, è ancora largamente prematura, la transizione dalla guerra del fuoco al combattimento tra “intelligence” umane e cibernetiche è già  in corso.
Sono trascorsi neppure cinquant’anni dall’incubo del Dottore Stranamore nel 1964 e dell’olocausto nucleare o dal confronto a muso duro fra gli arsenali atomici di Usa e Urss attorno a Cuba, in quello stesso anno. Ma l’evoluzione della guerra, da macelleria sui fronti del 1914, ai bombardamenti sulle città  della Seconda Guerra fino all’ultima grande operazione militare di massa nel 2003 con l’invasione dell’Iraq per deporre Saddam Hussein, si sta accelerando.
E lo sta facendo con la stessa vertiginosa rapidità  con la quale escono sul mercato computer, telefoni smart, chip e software già  obsoleti e superati nel momento stesso in cui sono messi in vendita. E per questo, negli incubi del pianificatori strategici del Pentagono prende corpo la minaccia cinese.
Non i milioni di soldati che discesero sulla penisola coreana negli anni ‘50, ma i miliardi di bit, appunto, e di circuiti integrati che oggi i cinesi fabbricano, e quindi copiano, sulle specifiche dei committenti americani, civili e militari.
La combinazione fra i costi ormai insostenibili, in vite umane e in tesoro pubblico, della guerra tradizionale e le possibilità  aperte dalla tecnologia si sta rivelando inarrestabile. Al centro della revisione del bilancio americano per la Difesa, in corso in questi giorni a Washington fra il ministro Panetta e i generali dello Stato Maggiore del Pentagono c’è esattamente questo. Per disposizione diretta del “Comandante in Capo”, del presidente Obama, anche l’apparato militare dovrà  tagliare qualcosa da quei 650 miliardi di dollari che oggi spende, ma mentre divisioni e navi, panzer e cannoni ne soffriranno la sola voce che dovrà  essere aumentata sarà  quella della “cyberwar”, della guerra dei computer, pensando ai russi, da sempre formidabili matematici e ingegneri, e ai cinese.
Tutto, oggi, è vulnerabile a un assalto condotto dalle Forze speciali che, nei quadri dello spionaggio, come negli stati maggiori militari, sanno che nessun sistema d’arma e ormai nessun soldato può funzionare se viene paralizzato il sistema di controllo computerizzato che regola una centrale nucleare come il cervello di un missile o il volo di un aereo. In un rapporto già  del 2002, presentato all’Università  di Harvard, un “futurologo”, Stephen Rosen, arrivò addirittura a immaginare un mondo nel quale non soltanto i reattori atomici o i programmi di puntamento della nuova artiglieria potranno essere disabilitati e paralizzati con il “telecomando” e con quei “vermi” introdotti nel software, come pare stia avvenendo per opera della Cia e del Mossad, per sparigliare i progressi iraniani verso la bomba. Ma addirittura, in una teoria che si sta ogni giorno di più avvicinando alla pratica, che «ogni singolo individuo in ogni parte del mondo possa essere sorvegliato direttamente».
Ormai anche i ragazzini, che vivano in Indonesia o in Italia, in Argentina o in Giappone, sanno che chiunque metta in funzione un computer, usi un telefonino, utilizzi la Rete e i social network può essere, e di fatto è, controllato.
Esistono ovunque, e negli Usa sono offerti da una società  della California, programmi che permettono non soltanto di sapere chi sei, dove sei, con chi parli e di che cosa. Ma di riprodurre su un monitor all’altro capo del mondo le lettere e i caratteri mentre sono battuti sulla tastiera. Se a qualcuno interessasse, lo schermo sul quale sto battendo questo articolo potrebbe essere visto, in contemporanea, da un “Grande fratello”.
Controllare e “vedere” una quantità  così mostruosa di informazioni è evidentemente oltre le possibilità  umane, anche del servizio di intelligence più gigantesco. Ma oggi, nella guerra dei bit che sta spodestando le guerre dei reggimenti o le guerre “asimmetriche” fra grandi potenze e piccoli gruppi, non sono più i droni umani del Kgb o della Stasi alla maniera della “Vita degli altri”. Sono computer che controllano altri computer, in una capacità  praticamente infinita e sempre meno costosa di sorveglianza e di selezione. Già  gli aerei senza pilota volano sui fronti della cosiddetta guerra al terrore, e si progettano pezzi di artiglieria semoventi, o navi da guerra, capaci di funzionare a distanza, senza presenza umana o con un minimo di equipaggio.
Ma la “future war” oltre le frontiere non più fantascientifiche della guerre dei robot e delle chip, prevede che alle bombe intelligenti, che tanti errori hanno commesso, resti saldamente affiancata la “intelligence delle bombe”, la versione moderna dell’antica guerra delle spie, dei sabotatori. Sono gli uomini, le persone, anche le donne, come la seducente spia russa arrestata lo scorso anno dallo Fbi a New York o gli agenti come quelli che sono stati pilotati e addestrati dal Mossad in Iran per la serie di attentati e attacchi alle case e alle persone di tecnici e scienziati addetti al programma nucleare iraniano. Erano “sleeper agent”, talpe, nella più classica tradizione dello spionaggio e del sabotaggio, resistenti locali del maquis anti-ayatollah. Un atto di terrorismo, o di contro terrorismo, secondo il punto di vista di chi lo organizza o di chi lo subisce e la dimostrazione che comunque il fattore umano non potrà  mai essere eliminato, trasformando le guerra in asettiche versioni militari di video game Perché i computer non sanguinano. Gli essere umani, invece, sì.

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