LA PAURA NUCLEARE
Scatta la massima allerta per il pericolo di una fuga in avanti nucleare del nuovo “monarca rosso”, Kim Jong-un. E c’è la speranza, ancora inconfessata, per una “svolta birmana” nella dittatura più isolata del mondo. È tra questi due estremi che oscillano le reazioni dei governi mondiali, da Washington a Tokyo, da Seul alle capitali europee, dopo la morte del dittatore nordcoreano Kim Jong-il e il passaggio del potere all’erede designato, il figlio più giovane. Lo scenario catastrofe si è materializzato subito, con i test di missili effettuati ieri da Pyongyang, e l’immediata mobilitazione delle truppe sudcoreane e americane, lungo il confine più militarizzato del mondo. A far paura non è solo il fatto che la Corea del Nord possiede abbastanza plutonio per una mezza dozzina di bombe atomiche, e ha più volte avviato la preparazione di armi nucleari. Nell’ipotesi più pessimistica, la fragilità dell’erede al trono – il terzo della dinastia Kim a occupare quella posizione – può indurlo a una prova di forza per accreditarsi presso i suoi militari. Il potere di Kim Jong-un dipende dal sostegno dell’esercito, l’unica istituzione funzionante, in un paese ridotto alla fame e governato per decenni con il terrore. Il terzo Kim non ha dimostrato particolari attitudini al comando, la sua selezione è avvenuta probabilmente perché il padre appena scomparso lo giudicava come il meno “debosciato” dei suoi rampolli. Non è molto, come credenziale per assumere il comando di un apparato militare geloso delle sue prerogative e dei suoi privilegi, in una nazione che vive sotto la legge marziale permanente.
La coesione della Corea del Nord, se così si può definire, è stata costruita tenendo il paese in uno stato di emergenza bellica permanente. La propaganda ha inculcato ossessivamente nella popolazione la minaccia imminente di un’aggressione militare da parte dell’America e della Corea del Sud. Per un leader inesperto, insicuro della propria posizione, una via per consolidarsi può essere quella di “avverare” il pericolo della guerra, lanciandosi per primo in atti ostili verso il vicino del Sud. Più sale la tensione più i militari si sentono confortati nel loro ruolo indispensabile, centrale e preminente. In questo scenario, la transizione diventerebbe destabilizzante, aprendo un focolaio di tensione gravissima in Estremo Oriente. Un problema enorme per Barack Obama, che non ha davvero bisogno di crisi militari nell’anno elettorale in cui ha promesso di chiudere quasi completamente i fronti iracheno e afgano. Anche Pechino però non vedrebbe con favore un’escalation bellica ai suoi confini: a Pechino come a Washington la preoccupazione numero uno è l’economia, il boom cinese sta rallentando da mesi, i conflitti sociali si moltiplicano. Una tensione militare in Asia non farebbe che aggiungere nuove nubi sull’economia globale, togliendo altra energia al motore dell’export made in China (basti pensare alle ripercussioni sui mercati di sbocco sudcoreano, giapponese e taiwanese, tre partner economici importanti per la Repubblica Popolare).
Un secondo scenario, all’estremo opposto, è iper-ottimista: vede in Kim Jong-un il demiurgo di una transizione pacifica verso rapporti più normali con l’America. In questa versione, grazie alla sua formazione in Svizzera, il terzo Kim sarebbe un “cripto-occidentale”, pronto a chiudere l’atroce parentesi di oltre mezzo secolo di despotismo comunista. Anche in questo caso l’ostacolo è la Cina: non può tollerare un’evoluzione al termine della quale ci sarebbe la riunificazione delle due Coree sotto l’ombrello americano. Di che alimentare la psicosi dell’accerchiamento a Pechino, proprio mentre si prepara l’avvicendamento (pacifico) di una generazione di leader, da Hu JIntao a Xi Jinpin.
Resta il terzo scenario, quello intermedio e forse più probabile. E’ l’ipotesi di una transizione affidata alla “guida amichevole” della Cina stessa. Pechino ha enormi poteri d’influenza su Pyongyang, che non sopravviverebbe senza i suoi aiuti alimentari, energetici, militari. Anche quando Kim li infastidiva con le sue letali provocazioni contro Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, i leader cinesi non hanno mai “staccato la spina” che teneva in vita il regime nordcoreano, perché lasciarlo crollare sarebbe stato peggio. La storia conta: la Corea del Nord esiste solo grazie ai milioni di soldati cinesi che Mao Zedong mandò a combattere contro gli americani nel 1950. La geostrategia conta ancor più: la penisola coreana è un bastione di difesa della Cina, contro gli Stati Uniti e l’arco dei loro alleati nel Pacifico. Se la Cina riesce a manipolare Kim Jong-un secondo i suoi disegni, lo vedremo anzitutto sul terreno economico, con l’accelerazione di quegli esperimenti fin qui molto timidi di trapianto del capitalismo a Pyongyang. Sull’economia si giocano due sfide essenziali. La prima: salvare il popolo nordcoreano dalle carestie ricorrenti che lo hanno decimato. La seconda è perfino più cruciale: uno sviluppo economico è la premessa per riconvertire alla vita civile 1,2 milioni di soldati, un’armata parassitaria che opprime questo paese spremendone le già magre risorse. La Corea del Nord “sinizzata” resterebbe un satellite strategico di Pechino, ma probabilmente diventerebbe meno erratica e minacciosa per l’Occidente.
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