La manovra senza lacrime: meno F 35 e sante elusioni

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Scordatevelo A far pagare l’Ici sugli immobili anche della Chiesa (o a ridurre l’aliquota dell’8 per mille sul gettito Irpef) – guadagnando circa 1.200 milioni l’anno – il premier Mario Monti non ci ha «ancora pensato». Invece, di fare cassa tagliando i fondi sulle spese militari – risparmiando per esempio i circa 15 miliardi di euro destinati all’acquisto dei 131 cacciabombardieri di ultima generazione F35 – non ci pensano proprio, anzi non ci penseranno mai. «Scordatevelo», avrebbe probabilmente risposto ieri ai giornalisti che lo interpellavano alla Camera il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, se solo avesse potuto abbandonare il tono professorale da supertecnici di governo. «Non credo proprio», si è limitato più elegantemente a rispondere a quanti gli chiedevano ieri se mai l’esecutivo avrebbe potuto ipotizzare un «sacrificio» del genere, come da più parti richiesto. «Ognuno ha diritto di esprimere la propria opinione, che va rispettata, ma non è detto che abbia ragione. E non credo proprio che loro abbiano ragione». Per Di Paola, le forze armate hanno già  dato «un grande contributo anche nelle manovre precedenti». Dunque nisba. Men che meno si sta discutendo, come pure accade nell’Europa di Merkel e Sarkozy o negli Stati uniti di Obama, di muoversi – sia pure collettivamente – verso la tassa anti-speculazione, la cosiddetta Tobin Tax sulle transizioni finanziarie. Né al momento sembra degna di considerazione la «ricetta verde» che secondo alcune associazioni ambientaliste, prima tra tutte Legambiente, produrrebbe «risorse per 21 miliardi» attraverso «la conversione ecologica di alcuni settori, il blocco delle ecomafie e gli incentivi alla sostenibilità  ambientale». Eppure, non sono proposte ideali e inapplicabili, ma pragmatissime alternative alla manovra tutta da piangere di Monti.
La «breccia fiscale»
«Si tratta di una questione che nel pacchetto urgente adottato non ci siamo posti». Così il neo premier ha liquidato ieri la questione dell’esenzione Ici sugli immobili di proprietà  della Chiesa (enti, diocesi, confraternite e istituti religiosi) destinati a un uso «non esclusivamente commerciale», come recita la postilla voluta da Bersani nel 2006 alla norma introdotta l’anno prima da Berlusconi. Eppure si tratta di una proprietà  cospicua, pari a circa il 20% del patrimonio immobiliare italiano, secondo le stime della società  finanziaria e immobiliare «Gruppo Re». Che produrrebbe, secondo i calcoli dell’Anci, circa 440 milioni di euro in più nelle casse dello Stato. «Considerando poi la rivalutazione della rendita catastale del 60% imposta nella manovra si arriverebbe a sfiorare i 700 milioni l’anno», spiega il segretario dei Radicali italiani Mario Staderini, animatore della campagna «Breccia fiscale». «Ha davvero una gran faccia tosta, la Cei, ad obiettare che la manovra avrebbe potuto essere più equa», aggiunge Staderini. Solo a Roma, racconta, «il mancato introito sugli oltre 23 mila immobili di proprietà  ecclesiastica è pari a 26 milioni di euro. Senza contare le “caste” elusioni il cui contrasto ha fruttato al Campidoglio circa 14 milioni». Naturalmente, per eliminare quella postilla che agevola l’evasione fiscale non occorrono modifiche al Concordato: come è venuta se ne può andare. Tanto più, poi, perché – oltre alle tante proteste che stavolta si alzano anche da parte Pdl -è ancora aperta la procedura della Commissione europea che ipotizza per l’Italia l’aiuto improprio di Stato. «Se poi – conclude Staderini – si decidesse di far lavorare quella benedetta Commissione bilaterale, formata da esponenti della Cei e del governo italiano, nata per regolare l’aliquota sul gettito Irpef, ancora ferma all’8 per mille malgrado dal 1990 ad oggi il gettito sia passato da 200 milioni a un miliardo di euro, allora dimezzandola lo Stato potrebbe recuperare altri 500 milioni di euro l’anno». In tutto, si tratta di un piccolo contributo ecclesiastico pari a 1200 milioni, pari all’introito ottenuto con l’Ici sulla prima casa degli italiani.
A caccia di fondi
Lo chiedono in molti, da Sel all’Idv, dalla Federazione della sinistra alla Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità  di accoglienza): la riduzione delle spese militari è il primo «sacrificio» possibile, in tempi come questi. «Voglio capire – ha denunciato ieri Nichi Vendola – se un “F35” vale più della salute di un malato di Sla e di un malato di Alzheimer, della possibilità  di curarlo. E rispetto al fatto che noi abbiamo avuto i fondi per la non autosufficienza dal precedente governo completamente disintegrati vorrei sapere se qualcuno si occupa delle persone disabili in questo Paese». I dati: due miliardi di euro già  pagati per fare fede all’accordo iniziale sulla ricerca e la progettazione dei nuovi cacciabombardieri F35 Lockheed che, al costo di 130 milioni di dollari l’uno, entreranno in produzione nel cantiere di Cameri (Novara) – costato 600 milioni di euro e che dovrebbe occupare circa 800 persone – alla fine del 2012, e verranno consegnati a metà  del 2013. Secondo Legambiente «per ogni posto di lavoro creato nell’industria militare se ne possono creare 3 con gli stessi soldi». «I restanti 15 miliardi di euro necessari, però – spiega Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci! – l’Italia se li può ancora risparmiare, perché la penale da pagare, al contrario che per gli Eurofighter, al momento sarebbe ancora molto bassa. Anche la Norvegia lo ha fatto». E con un grosso risparmio – globale – pure di lacrime.


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