La grande delusione per il Vertice di Durban

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DURBAN — Passata la paura di un fiasco totale, è il momento delle recriminazioni. Se la Piattaforma di Durban, fragile zattera delle diplomazie internazionali verso futuri impegni globali a difesa del pianeta dai gas serra, all’alba di ieri era stata applaudita quasi fosse un transatlantico, al termine della 17ª Conferenza mondiale Onu sul clima, nel pomeriggio era già  tornata a essere un misero guscio. La maggioranza degli ambientalisti e delle organizzazioni non governative, impegnate sul terreno a fianco delle popolazioni colpite da uragani, alluvioni, siccità , carestie non crede che le decisioni approvate siano la ricetta giusta per guarire i malanni della terra, asfissiata dalle emissioni dei combustibili fossili. Mentre il presidente sudafricano, Jacob Zuma, si dichiara «euforico» per il successo che resterà  associato al nome di Durban e a tutta l’Africa, i rappresentanti di Wwf, Greenpeace, Legambiente lasciano il continente con musi lunghi e, in tasca, «nulla più di un accordo su base volontaria che ci fa perdere altri 10 anni», per usare le parole del direttore esecutivo di Greenpeace International, Kumi Naidoo, espulso dal centro congressi di Durban dopo una contestazione troppo chiassosa.
«In effetti c’è poco da festeggiare — riconosce il keniota Mohamed Adow, rappresentante della ong inglese, Christian Aid —. Dalla Cop17 è uscito soltanto un compromesso. Si salva il processo negoziale, ma non si fa niente nell’immediato per aiutare chi vive in povertà  e patisce, in prima linea, le conseguenze del riscaldamento globale. Ovvio, è sempre meglio di niente. Ma, a parte l’istituzione del Fondo verde per il clima, gli accordi si riducono a una serie di impegni non vincolanti, e nemmeno estesi a tutti i paesi industrializzati, per il lontano 2020. E intanto?».
Intanto «tutto abbastanza bene», secondo il capo negoziatore americano, Todd Stern: «Abbiamo raggiunto il tipo di simmetria sulla quale avevamo puntato dall’inizio dell’amministrazione Obama». Proprio quello che gli rimprovera la sua concittadina Doreen Stabinsky, professoressa di politiche globali dell’ambiente al College dell’Atlantico, nel Maine, e a Durban come delegata dell’Istituto per la politica agricola e commerciale Usa: «Il mio governo è riuscito a distogliere l’attenzione dalla differenza sproporzionata che c’è fra la produzione annua di CO2 di un cittadino americano, 20 tonnellate, e quella di un indiano, 1,6. Ma, come diceva George Bush, vent’anni fa, lo stile di vita americano non è negoziabile. Evidentemente è così anche per questo presidente; e gli Usa possono essere solo contenti di partecipare a un processo che non li vincola legalmente, mentre altri paesi dovranno osservare i limiti delle emissioni fissate dal secondo Protocollo di Kyoto».
Anche agli occhi indiani di Payal Parekh, originaria di Mumbai ma da tempo residente a Berna, dove lavora come consulente per il clima, a Durban è stata sancita un’ingiustizia: «I paesi in via di sviluppo si stanno impegnando molto di più di quelli industrializzati, che hanno troppe scappatoie. Come posso, da attivista, fare pressioni sul governo indiano perché riduca le emissioni di CO2, quando il 40% della mia gente vive sotto la soglia di povertà ? Sono 450 milioni gli indiani che vivono con 1 dollaro e mezzo al giorno, e quasi altrettanti non hanno la corrente elettrica».
Forse mai come a Durban si sono delineate chiaramente le strategie in campo: «Da una parte Stati Uniti, Giappone, Russia e Canada che si tengono fuori dall’unico trattato degli ultimi 20 anni, il Protocollo di Kyoto — analizza Lin Li Lin, rappresentante dell’organizzazione malese Third World Network —, e dall’altra Cina, India e Paesi in via di sviluppo, molto più generosi di quelli ricchi, nel limitare le loro emissioni. Ma i tempi del futuro accordo globale sono troppo lunghi. Quasi 10 anni. Il riscaldamento del clima è molto più veloce. Sì, a Durban abbiamo fatto un passo avanti. E due indietro».


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