La Giordania delle contese

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Tantomeno credere che lo stato di Palestina esista già , oltre il fiume Giordano, e che quindi non c’è bisogno di un secondo territorio geopolitico nella West Bank Alla metà  degli anni Ottanta, un diplomatico tedesco mi trasmise un messaggio sorprendente. Un membro della famiglia reale giordana voleva parlare con me ad Amman. Allora la Giordania era ancora ufficialmente in guerra con noi. In qualche modo riuscii a ottenere il permesso dal governo israeliano. E i tedeschi mi fornirono generosamente un passaporto che non era del tutto preciso e così, grazie anche alle molte persone che chiusero un occhio, giunsi ad Amman e fui sistemato nell’albergo migliore della città .
La notizia del mio arrivo però si diffuse rapidamente e, dopo qualche giorno, divenne fonte d’imbarazzo per il governo giordano. Quindi mi fu chiesto gentilmente di andarmene, e anche molto rapidamente. Ma prima di ciò un funzionario di alto grado mi invitò a cena in un ristorante elegantissimo. Si trattava di una persona ben educata e molto colta, che parlava un bell’inglese. Rimasi sbalordito quando mi disse che era un beduino, membro di un’importante tribù. In quel momento, tutte le mie opinioni sui beduini andarono in frantumi.
Quella cena mi è rimasta impressa nella memoria, perché in (letteralmente) dieci minuti imparai più cose sulla Giordania di quante ne avessi apprese in decenni di letture. Il mio ospite prese un tovagliolo di carta e vi abbozzò una mappa della Giordania. «Guarda i nostri vicini – spiegò -. Qui c’è la Siria, una dittatura, laica e radicale, del partito Baath. Poi c’è l’Iraq, con un altro regime Baath che però odia la Siria. Accanto c’è l’Arabia Saudita, un paese ortodosso, molto conservatore. Poi c’è l’Egitto, con una dittatura militare filo-occidentale. Poi c’è il sionista Israele. Nei Territori palestinesi occupati stanno crescendo elementi radicali e rivoluzionari. E, che quasi ci tocca, ecco il Libano, diviso e imprevedibile».
«Da tutti questi paesi – proseguì – profughi, spie e influenze ideologiche si riversano in Giordania e noi siamo costretti ad assorbirli tutti. Dobbiamo mantenere un equilibrio molto delicato. Se ci avviciniamo troppo a Israele, il giorno dopo dobbiamo tranquillizzare la Siria. Se un giorno abbracciamo l’Arabia Saudita, quello successivo dobbiamo baciare l’Iraq. Non dobbiamo allearci con nessuno».
Ne trassi anche l’impressione che i palestinesi in Giordania (esclusi i profughi, che non incontrai) fossero perfettamente soddisfatti dello status quo, dominassero l’economia, si arricchissero e pregassero per la stabilità  del regime.
Mi piacerebbe che tutti gli israeliani di un certo peso avessero ricevuto questa lezione rivelatrice, perché in Israele erano in voga – e lo sono tuttora – le idee più grottesche sulla Giordania. L’immagine generale è quella di un paese piccolo e assurdo, governato da tribù beduine violente e primitive, mentre una maggioranza di palestinesi trama costantemente per rovesciare la monarchia e prendere il potere.
La qual cosa mi fa tornare in mente un’altra chiacchierata, al Cairo, con l’ex ministro degli esteri Boutros Boutros-Ghali, un copto che è tra le persone più intelligenti che abbia mai incontrato. «Gli esperti israeliani di affari arabi sono tra i migliori del mondo – mi disse -: hanno letto tutto, sanno tutto e non capiscono nulla, perché non hanno mai vissuto in un paese arabo».
Prima degli Accordi di Oslo, l’intera élite israeliana sosteneva la cosiddetta «opzione giordana», cioè l’idea che soltanto Re Hussein fosse capace e pronto a fare la pace con noi e che ci avrebbe regalato Gerusalemme Est e pezzi della West Bank (o Cisgiordania, ndt). Dietro questa idea sbagliata si celava l’intenzione tipicamente sionista di ignorare l’esistenza del popolo palestinese e impedire a ogni costo la creazione di uno Stato palestinese.
Un’altra versione di questa idea è racchiusa nello slogan «La Giordania è la Palestina». Me lo spiegò Ariel Sharon, nove mesi prima della Prima guerra del Libano. «Dobbiamo cacciare i palestinesi dal Libano in Siria. Poi i siriani li spingeranno verso Sud, in Giordania. E lì loro dovranno cacciare il re e trasformare la Giordania nella Palestina. La questione palestinese sparirà  e il conflitto che permarrà  sarà  un normale disaccordo tra due Stati sovrani, Israele e la Palestina».
«Ma che fare della West Bank?», gli domandai? «Dobbiamo raggiungere un compromesso con la Giordania – rispose – forse un governo congiunto, forse qualche forma di divisione delle funzioni».
L’idea rispunta di tanto in tanto. Questa settimana uno dei teppisti parlamentari di destra iperattivi e mentalmente handicappati ha presentato un’altra legge, intitolata «Giordania, lo Stato nazionale del popolo palestinese».
Al di là  della stravaganza di un paese che promulga una legge per definire il carattere di un altro paese, la norma è politicamente imbarazzante. Ma invece di cestinarla semplicemente, è stata passata a un sottocomitato dove le decisioni vengono prese in segreto.
Sua maestà , Re Abdullah II, è preoccupato. E ne ha ben donde.
È in atto una primavera araba democratica, che potrebbe estendersi al suo regno autocratico. C’è una rivolta nella confinante Siria, che potrebbe spingere profughi verso Sud. Cresce l’influenza dell’Iran sciita, che non promette nulla di buono per la sua monarchia risolutamente sunnita.
Ma tutto ciò non è nulla di fronte alla minaccia crescente di un Israele di destra, radicale. Il pericolo più immediato, dal suo punto di vista, è l’aumento della colonizzazione e dell’oppressione israeliana della West Bank. Un giorno o l’altro potrebbe spingere masse di palestinesi ad attraversare il confine e riversarsi nel suo regno, sconvolgendo il precario equilibrio demografico tra popolazione locale e palestinesi.
Fu proprio questo timore che durante la prima intifada spinse suo padre, Re Hussein, a tagliare i ponti con la West Bank, che era stata annessa da suo nonno dopo la guerra del 1948. Il termine «West Bank» è stato inventato dai giordani, per distinguerla dalla «East Bank», il territorio della Transgiordania da cui nacque l’attuale regno. Se «la Giordania è la Palestina», allora per Israele non c’è alcun freno ad annettersi la West Bank, espropriare le terre palestinesi, espandere le colonie già  esistenti e crearne altre, e in generale «convincere» i palestinesi a cercarsi una vita migliore a est del fiume Giordano.
Questa settimana il re ha espresso la sua preoccupazione in un’intervista – ben pubblicizzata – nella quale ha sollevato la possibilità  di una federazione tra la Giordania e lo (ancora occupato) Stato di Palestina nella West Bank, ovviamente per prevenire i progetti israeliani. Forse tenta anche di convincere i palestinesi che una mossa del genere li aiuterebbe a porre fine all’occupazione, faciliterebbe la loro richiesta di entrare a far parte a pieno titolo delle Nazioni Unite e impedirebbe un veto statunitense. Ma non credo comunque che questa offerta possa trovare molti palestinesi pronti ad accoglierla. I fautori della legge israeliana hanno chiarito che il loro obiettivo principale è hasbarah, un eufemismo ebraico che significa «propaganda». La loro idea – così credono – porrà  fine all’isolamento e alla delegittimazione d’Israele. Il mondo accetterà  che lo Stato di Palestina esiste già , oltre il fiume Giordano, e che quindi non c’è alcun bisogno di un secondo Stato nella West Bank.
Se Sua Maestà  sospetta che esista una dimensione molto più sinistra della strategia di propaganda, ha visto giusto. Ovviamente sta pensando a possibilità  molto più profonde e di lungo termine.
Tutto ciò ci riporta al dilemma originario della destra israeliana, un dilemma che appare insolubile. La destra israeliana non ha mai davvero abbandonato l’idea di un Grande Israele (che in ebraico viene chiamato «l’intero Eretz-Israel»). Ciò significa il completo rifiuto della soluzione dei due Stati, in qualsiasi forma, e la creazione di uno Stato ebraico dal Mediterraneo al fiume Giordano.
Tuttavia in uno Stato del genere vivrebbero – in base agli attuali dati demografici – circa 6 milioni di ebrei israeliani e circa 5,5 milioni di arabi palestinesi (2,5 nella West Bank, 1,5 nella Striscia di Gaza e 1,5 in Israele). E alcuni demografi credono che questi dati relativi alla popolazione araba siano in realtà  sottostimati.
Comunque sia, secondo tutte le proiezioni demografiche i palestinesi – in una simile entità  geografica – rappresenteranno presto la maggioranza. Che fare allora?
Alcuni idealisti credono (o si illudono) che, di fronte a una severa censura internazionale, Israele sarà  costretto a garantire la cittadinanza a tutti i suoi abitanti trasformando quest’entità  in uno Stato binazionale, multinazionale o non nazionale. Ma senza nemmeno bisogno di fare un sondaggio si può affermare con certezza che il 99,999% degli ebrei israeliani si opporrebbe a questa prospettiva con tutte le sue forze, perché sarebbe la totale negazione di tutto ciò che il sionismo rappresenta.
L’altra possibilità  sarebbe che questa entità  diventi uno Stato di apartheid, non solo parzialmente, non solo nella pratica, ma interamente, ufficialmente. Alla grande maggioranza degli ebrei israeliani anche quest’altra prospettiva non piacerebbe affatto, perché anch’essa costituirebbe una negazione dei valori più profondi del sionismo.
Ma allora non c’è alcuna soluzione per questo dilemma? Il re sembra ritenere che esista, e che sia implicita nel sogno di un Grande Israele. Questa soluzione è la ripetizione del 1948: una naqba di dimensioni molto più ampie, che gli israeliani chiamano eufemisticamente «transfer».
Questo significa che, quando le condizioni internazionali lo permetteranno – ad esempio grazie a un grande disastro internazionale che sposta l’attenzione da qualche altra parte del mondo, una grande guerra, o un evento simile – il governo espellerà  la popolazione di non ebrei. Dove? La risposta la fornisce la geografia: in Giordania. O, piuttosto, nel futuro Stato di Palestina in quella che una volta era la Giordania.
Quasi ogni israeliano che sostiene l’idea del Grande Israele ha in mente questa soluzione, almeno a livello inconscio. Forse non nella forma di un piano d’azione per il futuro prossimo, ma certamente come l’unica soluzione nel lungo periodo.
Oltre 80 anni fa, Vladimir (Ze’ev) Jabotinsky, il fondatore della corrente revisionista del sionismo e padre spirituale di Binjamin Netanyahu, scrisse alcuni versi che venivano cantati dall’Irgun (di cui ho fatto parte quando ero molto giovane). Una bella canzone con una bella melodia, il cui ritornello recita: «Il Giordano ha due rive / Una appartiene a noi, l’altra pure».
Jabotinsky, un grande ammiratore del Risorgimento italiano del XIX secolo, era un ultra nazionalista e un sincero liberale. Un verso della poesia dice: «Il figlio dell’Arabia, il figlio di Nazareth e il mio stesso figlio / troveranno qui felicità  e ricchezza / perché la mia bandiera, una bandiera di purezza e onestà  / purificherà  entrambi i lati del Giordano». Il simbolo ufficiale dell’Irgun era una mappa che includeva la Transgiordania sulla quale era stampato un fucile. Questo emblema fu ereditato da Herut (libertà ), il partito di Menachem Begin, il papà  del Likud.
Questo partito ha abbandonato da tempo l’ideale dei tre figli, purezza e onestà .
E lo slogan «La Giordania è la Palestina» significa che ha rinunciato anche a rivendicare la sponda orientale del Giordano.
Oppure no?
Traduzione di Michelangelo Cocco


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