La dittatura dei mercati

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Ai piani bassi ci sono i cittadini dell’Unione, sempre più simili, nella loro condizione di impotenza e di dipendenza dai diktat della finanza, agli altri 6 miliardi e mezzo di esseri umani che popolano il pianeta. Niente di quello che accade o accadrà  loro dipende più da una loro scelta: né «individuale» (esercitando la cosiddetta «sovranità  del consumatore»), né espressa a maggioranza (esercitando la loro asserita «sovranità » di cittadini). Persino le differenze tra un cittadino greco, italiano e tedesco si attenuano di giorno in giorno: tutti vivono ormai sotto la cappa di una catastrofe economica su cui non hanno alcuna possibilità  di influire. Perché a decidere non sono loro, ma «i mercati».
Se questa è la vera ripartizione dell’Europa, la linea di demarcazione tra i due piani è invece meno chiara. Innanzitutto perché da questa parte del confine ci sono molti infiltrati: partiti e sindacati che si occupano più di predicare rinunce e sacrifici che di progettare un futuro dignitoso per le persone che rappresentano; economisti e giornalisti che imbrogliano i conti; imprese che vivono del peggioramento delle condizioni di coloro che lavorano per loro; e banche che, anche se ora si trovano a mal partito, hanno trascurato da tempo, con l’incoraggiamento dei governi, il loro mestiere per impegnare invece le loro risorse nel mercato assai più redditizio degli investimenti speculativi in titoli e derivati di ogni genere, o in progetti immobiliari senza futuro. Ma il guaio maggiore è che non si sa, o si sa troppo poco, chi c’è veramente dall’altra parte di quel confine: chi sono quei fatidici «mercati». Per molti sono una forza impersonale, una legge di natura, un fenomeno incontrollabile come un terremoto o la caduta di un asteroide; per altri non sono che «la democratizzazione del capitalismo»: perché in Europa, come negli Usa o in Giappone, sono ormai in milioni a dipendere, in tutto o in parte, da «risparmi» investiti in bond o altri titoli di credito: direttamente o attraverso una banca, un’assicurazione, un fondo di investimento; tutti organismi che per fare profitti sono in grado di mandare in malora da un giorno all’altro sia imprese che interi paesi. È vero: in Italia meno che altrove, perché la previdenza è ancora in gran parte amministrata (male) come un «bene pubblico» – ma non certo «comune» – dall’Inps; e non da assicurazioni private (il «secondo pilastro») a cui si cerca, finora con scarso successo, di trasferire una quota crescente delle pensioni.
Sono loro «i mercati», i sostenitori di una stessa cultura, i sacerdoti, in diverse salse, del liberismo. Finché di loro si sa poco o niente, sembrano dèi dell’Olimpo, pozzi di sapienza. Ma appena li vedi all’opera, si scopre che sono dei pirla come tutti noi. O anche un po’ di più. Monti e Marchionne sono esempi lampanti di banalità , ferocia contro i deboli, complicità  con i forti, e inconcludenza. E ora che al posto dei clown abbiamo sfoderato i nostri «campioni» possiamo vedere che all’estero non stanno poi tanto meglio. Perché a chiudere loro l’orizzonte e impedirgli di fare i conti con la realtà  è la miseria del pensiero unico, la cultura della crescita per la crescita.
Ma se un processo di trickle-down (di discesa e contaminazione dall’alto al basso) c’è stato, questo non ha mai riguardato la ricchezza, come sostiene l’apologetica liberista; ma solo il «pensiero unico»: non tanto, e sempre meno, con l’idea che il «libero mercato» porti crescita e benessere a tutti, in una visione positiva dello «sviluppo» e del futuro. Bensì, sempre più, con l’idea che «non c’è alternativa»; che così è e così si deve fare. Che questo mondo è una gabbia – o una galera – da cui non si può fuggire. Per questo il destino dell’Europa sembra indissolubilmente legato alle sorti, e alla bancarotta, del pensiero unico; che non è una teoria misteriosa, perché si riassume nella formula vecchia come il mondo di rubare ai poveri per dare ai ricchi.
Ma è proprio vero che non c’è alternativa? Ricordiamoci che apparteniamo a quella comunità  che otto anni fa – in occasione delle marce contro l’intervento in Iraq – il New York Times aveva definito «la seconda potenze del mondo» (e che ha perso un’importante battaglia, ma non la guerra); a quella maggioranza assoluta che in Italia ha stravinto i referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici, issando l’acqua come propria bandiera; all’universo di Occupy the world, che è l’interprete di sentimenti e progetti che coinvolgono il 99 per cento della popolazione mondiale. E che oggi abbiamo il compito di capire e dire come andare avanti. La crisi dei mercati finanziari ha reso evidente che l’idea stessa di democrazia e di rappresentanza si è dissolta, e che la decisione ultima sulle nostre vite, i nostri redditi, il nostro lavoro, è stata consegnata alla potenza extraterritoriale dei «mercati». Che non hanno un piano strategico di riassetto del mondo, né tanto meno sono promotori di un «complotto» internazionale; ma, a conferma delle analisi di Marx, sono i soggetti di una gestione anarchica e turbolenta dell’economia e della società , la cui unica risorsa è quella di mantenere in mano le leve del potere anche quando una crisi mette alle corde non solo intere popolazioni, ma anche una parte di loro: Sansone non muore insieme ai «filistei». Anche se esce malconcio.
Forse nei prossimi giorni i governi europei troveranno il modo di allontanare per un po’ il disastro; ma solo perché si ripresenti, di qui a un anno o qualche mese, in forma ancora più grave. Finché incomberà  sulla nostra testa una bolla finanziaria come quella che ci sovrasta, non ci potrà  essere «uscita dalla crisi». Per questo dobbiamo imparare a conviverci, apprestando i mezzi della nostra sopravvivenza e di una esistenza il più possibile indipendente da loro. Mettendo al primo posto la riterritorializzazione – per quanto è possibile – dei circuiti economici e una radicale ristrutturazione di tutti i debiti pubblici e privati insostenibili: un grande giubileo.
Di fronte al fallimento del modo in cui è stato governato il pianeta – soprattutto negli ultimi trent’anni – che ci fa rivivere i rischi di 80 anni fa, compresa la reviviscenza del nazionalismo e del razzismo, occorre trovare la capacità  di progettare e cominciare a praticare un diverso modo di vivere, di produrre, di consumare, di amministrare. A partire dai nostri punti di maggior crisi, come quelli della produzione di auto, di navi e, a maggior ragione, di armi e tangenti (esemplificata da Finmeccanica). Occorre recuperare l’idea che la democrazia non può non coinvolgere la sfera economica, cioè il governo o gli indirizzi dell’impresa, pena la sua dissoluzione a qualsiasi altro livello. E che l’unica strada per affermare la democrazia economica è la conversione ecologica del consumo e della produzione. Che questa conversione deve coinvolgere l’intera comunità  che vive del lavoro di un’impresa e che ne subisce l’impatto ambientale e sociale. Quanto più produzione e consumo, impianti e loro utilizzo, saranno vicini o in rapporto diretto, grazie a un libero accordo tra comunità  consenzienti, tanto più sarà  possibile sottrarsi, senza bisogno di ricorrere a impraticabili protezionismi, ai vincoli di quella concorrenza spietata che spinge ineluttabilmente verso il basso i salari e verso il disastro le condizioni di vita di tutti.
Per questo occorre un cambiamento radicale della classe dirigente: quella attuale è irrecuperabile, anche se imbellettata da titoli accademici invece che da fard e parrucche; ma soltanto la pratica sociale può produrne una veramente diversa. Non è il disegno utopico di una società  futura, ma un progetto di organizzazione del conflitto sociale e ambientale per offrire un’alternativa, sia programmatica che operativa, al disastro che sta investendo l’Europa e il mondo. Il nostro futuro è nell’Europa dei movimenti, di cui si discuterà  venerdì prossimo a Firenze, al teatro Puccini.


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