La crisi di piazza del sistema Putin
La botta è stata forte, e tanto di più in quanto era pure prevedibile e prevista, e non è stata evitata. Le grandi manifestazioni «per elezioni pulite» di sabato scorso, a Mosca e in tante città della Russia, hanno lasciato un segno pesante sul regime russo – ma forse sarebbe meglio parlare di «Sistema Putin», quel particolare complesso di persone, leggi, comportamenti e interessi che oggi definisce il potere russo, non una élite democratica ma neppure una cricca dittatoriale, piuttosto qualcosa di simile alla vecchia nomenklatura sovietica, ma più giovane anagraficamente e senza coperture ideologiche di sorta se non quella di un vago patriottismo nostalgico-nazionalista.
Un segno pesante dunque, testimoniato da una serie di reazioni deboli, scoordinate quando non contradditorie e prive comunque di appeal per le decine, centinaia di migliaia di persone che si sono decise sabato a scendere in piazza per manifestare il proprio scontento. Sarebbe stato lecito attendersi da Vladimir Putin un gesto forte di qualche tipo – fosse di chiusura, con il via libera a una repressione dura estesa per esempio ai social network, o al contrario di apertura, con il riconoscimento di un errore grave e l’avvio di un dialogo con gli scontenti: e invece no. Il premier e candidato presidente prima ha mandato avanti il suo portavoce e altre figure minori del partito Russia Unita a dire che sì, certo, manifestare è legittimo, ascolteremo, terremo conto; poi, lunedì, ha mobilitato e fatto scendere in piazza i suoi sostenitori, ma con scarsa convinzione (al punto che la manifestazione è risultata modesta ed è stata poco pompata persino dai media più governativi); infine, quando dopo diversi giorni si è deciso a parlare in prima persona, è stato per dire che forse dei brogli elettorali ci sono stati, ma non così tanti da togliere legittimità alle elezioni. Il che probabilmente corrisponde alla realtà , ma certo non è la cosa migliore da dire a un interlocutore sociale che chiede giustizia e trasparenza. Quali brogli, dove, di che entità , attuati da chi per conto di chi: queste sono le risposte che la gente si aspetta da uno statista che ha fatto del pieno controllo e della perfetta competenza i suoi cavalli di battaglia, anche elettorali; e tantopiù dopo che lo stesso statista ha per la prima volta ammesso una sconfitta politica importante, quella subìta dal suo partito nelle elezioni del 4 dicembre, che nessun broglio ha permesso di nascondere.
Resta quindi l’incertezza più completa su quella che sarà la linea di condotta di Putin da qui alle elezioni presidenziali. Adesso che è chiaro – per sua stessa ammissione, sia pure a denti stretti – che il consenso popolare intorno a lui e soprattutto intorno al suo «sistema» è calato bruscamente, Putin non può permettersi di non fare nulla e limitarsi ad aspettare che la protesta si smorzi da sola, per stanchezza e frustrazione. Il rischio è che il 4 marzo la sconfitta sia ancor più clamorosa e non camuffabile nemmeno dai brogli più pazzeschi: per venirne fuori sarebbe a quel punto necessaria una forzatura antidemocratica enorme, oggi men che mai ipotizzabile e comunque rischiosissima per la stessa sopravvivenza del paese. Dunque sarà necessaria un’azione diversa, politica, per riconquistare consenso o quantomeno per deviare e depotenziare lo scontento crescente tra i cittadini. Una strategia elettorale, per dirla nel modo più riduttivo: anche per approfittare della debolezza di tutti gli altri politici che si muovono sulla scena nazionale e che non stanno riuscendo a capitalizzare minimamente su questa improvvisa onda di scontento.
Sia i partiti che stanno in parlamento, che quelli che hanno inutilmente cercato di entrarci hanno già annunciato che presenteranno come candidati alle presidenziali i loro soliti leader, con i loro soliti programmi: Zyuganov, Zhirinovskij, Mironov, Yavlinskij… neanche una faccia nuova, neanche una proposta che non sia scontata. L’unica novità politica emersa in Russia dopo la manifestazione anti-regime di sabato non è davvero delle più promettenti: altri due liberali di destra che si candidano a guidare il paese al posto di Putin. Il multimiliardario Mikhail Prokhorov, già più volte protagonista dei titoli sui media – prima per le sue imprese da playboy, poi per le fortune delle sue aziende, quindi per il suo esser proprietario di una famosa squadra basket Usa ed infine quest’estate per un improvviso e breve entusiasmo per la politica – ha annunciato ieri la sua candidatura alle presidenziali ancora non si sa con quale partito; contemporaneamente l’ex ministro delle finanze Aleksej Kudrin, noto per il suo inflessibile ardore liberista e licenziato pochi mesi fa dal presidente Dmitrij Medvedev per averlo pubblicamente criticato, ha detto che è giunta l’ora di dar vita a un nuovo partito liberale che parta dalla legittima protesta dei cittadini.
La duplice e contemporanea uscita di Prokhorov e Kudrin fa pensare a un’operazione coordinata, che vorrebbe sostituire l’attuale tandem del Kremlino sfruttando la spinta delle proteste di massa che stanno scuotendo la Russia: ma puzza di falso – cioè di manovra organizzata in accordo con Putin per deviare e confondere un’opinione pubblica che ha ormai rotto gli argini dell’indifferenza verso la politica – fin da lontano. E se così non fosse, si tratterebbe comunque di un’operazione lontanissima dalla sensibilità della gente normale e destinata a fallire totalmente, né più né meno come ha sempre fallito durante gli anni di Putin l’opposizione liberale tradizionale, quella sponsorizzata da governi e media occidentali, che sabato si è trovata sommersa e travolta (anche se dalla parte giusta) dalla marea degli «indignati» russi, ai quali però non sa cosa proporre se non se stessa.
La marea di sabato non era certamente «liberale» e filo-occidentale, nel suo insieme; né d’altra parte contestava i cardini politici, economici e sociali del regime russo, come i movimenti «Occupy Something» che in questi mesi scuotono le città degli Usa e dell’Europa. Anzi, era probabilmente costituita in buona parte proprio da persone che formano la base sociale del putinismo, quella middle class che nel decennio scorso si è enormemente ampliata senza tuttavia riuscire ad esprimersi politicamente e ad avere influenza sulle decisioni (soprattutto a livello locale). I tanti giovanissimi che si vedevano nel corteo, per dire, erano assolutamente identici a quelli che formano il nerbo delle organizzazioni giovanili pro-putiniane. C’erano moltissimi comunisti (ma non i leader, troppo prudenti per esporsi) come pure moltissimi nazionalisti di destra, tutti accomunati da un’idea piuttosto semplice: non essere presi in giro dal potere e ottenere che le elezioni siano elezioni vere. Non è un caso che una delle frasi più diffuse e riprese dai media fosse «Non ho votato per questi bastardi» (e accanto il simbolo di Russia Unita) «Ho votato per questi altri bastardi» (e accanto i simboli di tutti gli altri partiti).
Può essere che il Cremlino, dopo le esitazioni e i tentennamenti iniziali, finisca per rifiutare ogni concessione, facendo solo vaghe promesse e puntando sull’esaurimento spontaneo, per stanchezza, della protesta – ma con il rischio che le presidenziali di marzo, ormai vicinissime, si risolvano in una sconfitta catastrofica per Putin. E può essere che invece Putin decida di cedere, riconoscendo che la partita del 4 dicembre era truccata e cercando di scaricarne la colpa sul suo partito e sulla sua burocrazia – ma con il rischio di scatenare un terremoto incontrollabile.
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