La Corea del nord non è lontana

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Tra il 1995 e 1998 una carestia ha causato la morte di 600.000 persone, pari al 4% della popolazione, e la situazione economica attuale del paese è disastrosa. La cosa può essere di qualche interesse per noi perché ci ricorda che le reazioni psicologiche dei popoli a volte premiano il contrario di una buona amministrazione dei loro interessi. Il nostro presidente della Repubblica è stato finora molto attento a interpretare in modo corretto le emozioni degli italiani dialogando con le loro ansie e cercando di dare risposte che incoraggiassero la loro fiducia nell’unità  nazionale e nelle istituzioni, che favorissero il rispetto della convivenza civile e per gli immigrati e stimolassero una giusta preoccupazione per il futuro dei giovani e dei disoccupati. Ha posto in questo modo un argine alla deriva berlusconiana, lavorando su un piano squisitamente psicologico non per manipolare i nostri impulsi più primitivi e egoistici ma per incoraggiare sentimenti positivi, responsabili in grado di spostare il nostro investimento della realtà  dall’opportunistico interesse a breve termine allo sforzo costruttivo di lungo respiro. Il successo del presidente è un segno positivo per noi. Siamo, probabilmente, una società  più sana del temuto. Tuttavia cullarsi nell’illusione che il più è fatto sarebbe pericoloso. È difficile sottrarsi all’impressione che il governo Monti non stia andando nella stessa direzione della felice politica che il presidente della Repubblica ha perseguito fino ad oggi. Le sue ancora elevate percentuali di approvazione non devono ingannare. Sul piano psicologico questo governo sfrutta il buon lavoro di preparazione fatto da Napolitano. Ma con il freddo aplomb che caratterizza il suo taglio prevalentemente professorale rischia di vanificare, col passare del tempo, il ritrovato interesse degli italiani per figure istituzionali umanamente vicine alle loro difficoltà  e problemi, che di per sé non risolvono queste difficoltà  ma garantiscono il clima di condivisione e di solidarietà  necessario per il loro superamento. Inoltre il premier mentre da una parte si mostra, giustamente, ben intento a risolvere la precarietà  insostenibile dei nostri conti, dall’altra sembra ignorare la precarietà  emotiva che le sue soluzioni impongono a chi le deve sostenere. Chi lavora può accettare di vivere temporaneamente in povertà  se questo ha il significato di un sacrificio che salvaguarda il suo futuro ma non può farlo se il futuro gli sembra un miraggio e se l’iniquità  gli fa apparire il suo sacrificio come conferma di una sua emarginazione senza speranza. I lavoratori possono fare i buoi se è necessario (hanno salvato il paese più volte) ma non ci riescono se gli si mette il carro davanti. Se il loro senso di responsabilità  continuerà  a essere degradato in balzello su cui lucrare, la disgregazione del nostro comune sentire aprirà  un vuoto identitario. Le richieste emotive di “ordine” a qualsiasi condizione e prezzo nascono in questo modo e la storia dell’Europa ci dice che la Corea del Nord non è così lontana come sembra


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