La cattura del re di Gomorra nel bunker sotterraneo hi-tech “Mi arrendo, ha vinto lo Stato”

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CASAPESENNA – Trecento poliziotti sul terreno, elicotteri e aerei in cielo. Qualche curioso affacciato ai balconi. Casapesenna, ore 6.20. Lo Stato entra a Gomorra. Cintura il paese, chiude le vie d’accesso. Vengono perquisite 34 abitazioni. Un numero più ristretto di agenti si dirige verso vico Mascagni. Il viottolo è circondato. In una villetta familiare protetta da un cancello, si nasconde il superlatitante del clan dei Casalesi Michele Zagaria. Gli danno la caccia da sedici anni. È rifugiato cinque metri sotto terra, in un covo hi tech degno di un padrino capace di attraversare una storia criminale che sembrava infinita. Invece si conclude dopo quattro, cinque ore di lavori all’interno dell’abitazione, quando le trivelle utilizzate dagli investigatori per scavare nel pavimento fanno saltare la corrente elettrica.
Si ferma anche l’impianto di areazione che dà  ossigeno al padrino. Zagaria, a quel punto, capisce. Batte uno, due colpi sul soffitto. «Calma, calma», gli dicono. Torna la luce, la stanza adibita a stireria si sposta sul binario a motore azionato da un telecomando e lascia spazio all’ingresso di una botola. Una scala in alluminio con quindici gradini conduce al piano sottostante. Zagaria è lì. Lo hanno preso. «Ha vinto lo Stato», urlano i poliziotti. Lui scuote il capo. «Perché gridano?», domanda il boss. «Perché ha vinto lo Stato», gli rispondono. Zagaria annuisce, chiede di fare una doccia. Nel covo ci sono gli agenti dello Sco della polizia con in prima fila l’ex capo della squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, trasferito perché colpito da un divieto di dimora nel capoluogo nell’ambito di un’inchiesta per favoreggiamento originata dalle rivelazioni di un ex confidente poi pentito. I vice questori Alessandro Tocco e Vincenzo Morabito, il capo della Mobile di Napoli, Andrea Curtale in contatto con il questore Luigi Merolla. E alcuni dei magistrati del pool della Procura di Napoli: il procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho, i pm Marco Del Gaudio, Catello Maresca, Giovanni Conzo, Raffaello Falcone. «È finita», dicono gli inquirenti. «Lo sapete che non ero d’accordo con le cose brutte che hanno scritto sui giornali», afferma Zagaria riferendosi ai progetti di attentato stragista ai danni di pm e investigatori rivelati da un pentito. Scende il questore di Caserta Guido Longo, che tredici anni fa arrestò il primo padrino dei Casalesi, Francesco Schiavone detto Sandokan, e chiede a Zagaria: «Ma qui prende il cellulare»?.
«È la fine di un incubo», commenta il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, che con il pm Filippo Beatrice si è tenuto in costante collegamento con gli inquirenti napoletani impegnati in un’indagine complessa, segnata da molti colpi andati a vuoto anche grazie alle coperture e al “controspionaggio” di cui Zagaria disponeva. Il padrino viene portato via su un’auto grigia. I poliziotti festeggiano, la gente di Casapesenna guarda. Molti restano in silenzio, ma vola anche qualche insulto. La notizia viene comunicata in diretta al ministro della Giustizia Paola Severino dal vice presidente nazionale dell’Anm, Antonello Ardituro, che è in visita in via Arenula con la giunta nazionale dell’associazione. Il ministro si complimenta e riceve la telefonata del premier Mario Monti. Il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri parla di «grandissimo successo». Si rallegra anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Il Guardasigilli Severino firma suo primo decreto di carcere duro. Il padrino viene condotto a Novara. La polizia Scientifica avvia le indagini sul covo di ultima generazione, protetto da un ambiente mobile che si spostava attraverso un congegno acquistato di recente dai fiancheggiatori del latitante. E chiamato, nelle intercettazioni, «â€˜o ping pong». Una volta all’interno, attraversato un piccolo corridoio con un paio di scalini, c’è una camera di circa venti metri quadri perfettamente abitabile. Sulla parete, un crocefisso e una cornice a forma di cuore la foto di due ragazzini. Sulla scrivania, mouse e tastiera da computer, una cartellina con documenti. E poi, la biografia di Steve Jobs, i libri del giudice Raffaele Cantone e del giornalista Gigi Di Fiore. E naturalmente Gomorra, il libro di Roberto Saviano che ha raccontato al mondo intero il romanzo di sangue del clan dei Casalesi. Nell’armadio, quattro giubbini di pelle. Niente soldi, né armi. Un letto a una piazza e mezzo, tre monitor a circuito chiuso per controllare la situazione all’esterno, un citofono per comunicare con il piano superriore. Lo chiamavano “capastorta” ma anche il “monaco”: niente moglie né figli. Una vita in fuga, tra affari e relazioni istituzionali. Protetto da una rete di coperture che il lavoro di forze dell’ordine e magistrati, con il pool composto anche da Francesco Curcio, Cesare Sirignano, Luigi Landolfi, Ammaria Lucchetta, ha progressivamente allentato fino a reciderla definitivamente, con i colpi inferti agli imprenditori collusi e anche al cerchio più ristretto della zona grigia, quello della politica. Il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore, che va in pensione fra una settimana, centra l’obiettivo più importante. La testa di Gomorra è caduta, lo Stato si è preso la rivincita. Una pagina di sangue si è chiusa per sempre.


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