Kamikaze contro l’intelligence
Due kamikaze lanciati contro due sedi dei servizi di sicurezza a Damasco hanno provocato ieri mattina circa 40 morti e oltre 100 feriti. È la prima volta che si verificano simili attentati nel cuore della capitale siriana. Le esplosioni sono avvenute a pochi minuti di distanza l’una dall’altra e hanno colpito la Direzione generale della sicurezza e la sede di un’altra agenzia dell’intelligence nell’area di Kafr Sousa.
Immediata la reazione del governo che, attraverso la tv di stato, ha attribuito gli attentati a militanti di al Qaeda, sostenendo, a conferma di questa affermazione, di aver avuto nei giorni scorsi dal Libano notizie che i terroristi si stavano infiltrando in Siria. Per l’opposizione del Consiglio nazionale siriano (Cns) invece gli attentati sono opera del governo. «C’è il regime dietro gli attentati compiuti questa mattina (ieri per chi legge, ndr) a Damasco» ha sostenuto anche Riad Asaad, leader del cosiddetto Esercito siriano libero che riunisce i militari che hanno disertato dall’esercito regolare siriano, in una intervista alla tv satellitare al Jazeera. «Noi siamo estranei a questa vicenda che fa gli interessi del regime il quale in questo modo dimostra agli osservatori arabi che nel paese combatte il terrorismo», ha aggiunto Asaad.
Gli attentati si sono infatti verificati a poche ore dall’arrivo a Damasco della prima équipe di osservatori arabi incaricati di preparare la missione della Lega araba, che dovrebbe monitorare la fine delle violenze da entrambi le parti, il ritiro dei militari dalle strade e il rilascio degli oppositori in carcere. Ad aumentare la tensione nella regione ha contribuito anche la dichiarazione dell’ex primo ministro libanese Saad Hariri. «C’è molta confusione, ma credo che l’esplosione sia stata progettata dal regime di Damasco, proprio come sostenuto dal Cns», ha affermato Hariri su Twitter.
Quelle degli attentati non sono le uniche vittime della giornata di ieri: almeno 14 sono i civili uccisi dai militari, la maggior parte a Homs, durante la protesta «del Protocollo della morte» che come ogni venerdì ha mobilitato l’opposizione al regime in varie città siriane. Secondo dati dell’Onu sarebbero oltre 5.000 i civili uccisi e migliaia i detenuti da quando è iniziata la protesta contro il regime, scoppiata nel mese di marzo.
La Siria sta precipitando nel baratro di una guerra civile dopo il passaggio all’opposizione di forze dell’esercito di Assad, che si sono scontrate con quelle regolari provocando numerose vittime. Gli oppositori del Consiglio nazionale siriano, che scendono in piazza ormai da nove mesi, hanno chiesto ai militari che si sono schierati contro Bashar al Assad di essere solo protetti rifiutando uno scontro armato con il regime. L’opposizione siriana vuole evitare la deriva libica.
Al di là delle diverse attribuzioni gli attentati di ieri pongono inquietanti interrogativi: è stata una mossa del regime per screditare l’opposizione, oppure Assad non è più in grado di garantire la sicurezza dei propri apparati e di evitare persino un attacco ai propri servizi di intelligence?
Nel secondo caso il regime sarebbe vicino alla sua fine e questo potrebbe rappresentare una destabilizzazione per tutta l’area, non a caso l’occidente, così solerte ad intervenire in Libia, è molto più cauto sulla Siria.
Gli attentati di ieri segnano comunque una drammatica escalation nella violenza e anche nell’internazionalizzazione del conflitto. Lo scontro in atto in Siria è tra la componente sciita (cui appartiene la famiglia alauita di Assad) e quella sunnita. Lo schieramento sciita è guidato dall’Iran e comprende i partiti religiosi iracheni, al potere a Baghdad, e gli Hezbollah libanesi (rimettendo in gioco anche i diversi schieramenti del Libano, il paese più dipendente dall’evoluzione siriana), mentre quello sunnita è capeggiato dall’Arabia saudita e dai paesi del Golfo con in prima fila il Qatar. Sono i paesi del Golfo a finanziare i partiti islamisti sunniti «moderati» – Fratelli musulmani egiziani e En-nahda in Tunisia, tra gli altri – ma anche le componenti radicali salafite.
Lo sceicco del Qatar, che ha sponsorizzato l’intervento occidentale in Libia, oltre ai soldi per la propaganda a favore degli islamisti dispone anche della tv satellitare al Jazeera. Questi regimi stanno giocando il tutto per tutto per evitare il contagio della rivolta araba. Per impedire che i messaggi che circolavano anche sui siti sauditi portassero la protesta nelle piazze della roccaforte wahabita, il re Abdullah ha investito 130 miliardi di dollari in servizi sociali – costruzione di case, sostegno ai disoccupati, etc.
Ieri, il ministero degli Esteri dell’Arabia saudita, che aveva già ridotto al minimo il personale diplomatico presente in Siria, ha deciso di chiudere la propria ambasciata a Damasco e di rimpatriare i suoi addetti.
In questo scontro tra sunniti e sciiti l’Iraq potrebbe diventare la linea del fronte se il regime di Assad dovesse cadere e il potere finire nelle mani della maggioranza sunnita. Non a caso il premier iracheno al Maliki, appena partiti gli americani, ha rafforzato i legami già consolidati con Tehran e accelerato lo scontro con la componente sunnita del suo governo.
Che l’Iraq sia in prima linea si è visto in questi giorni con la ripresa degli attentati a Baghdad.
Dopo questi attentati di Damasco tutti gli scenari sono possibili e influenzeranno anche l’evoluzione dello scontro in atto in altri paesi arabi, in particolare in Egitto.
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