Kamikaze a Damasco: 40 morti
Chi sono i veri mandanti dei due kamikaze che ieri si sono fatti saltare in aria a Damasco nell’area super pattugliata dove stanno i comandi dei servizi segreti civili e militari causando oltre 40 morti? È questa la domanda che accompagna ora le accuse e contro accuse tra governo e rivoluzionari sul massacro più grave nel cuore della capitale a nove mesi dall’inizio delle rivolte in Siria. Centrale perché rivelatrice di quanto le due parti siano ormai lontanissime da qualsiasi possibilità di compromesso e soprattutto prova della deriva sempre più violenta in cui sta cadendo il Paese ormai lacerato da una gravissima e sanguinosa guerra civile.
Partiamo dai fatti. Ieri mattina verso le dieci e un quarto ora locale, a meno di 24 ore dall’arrivo nel Paese della prima decina di osservatori della Lega araba mirati a cercare una soluzione pacifica alla crisi (dovrebbero arrivare a quota 150 entro poche settimane), due attentatori suicidi fanno brillare le loro auto cariche di dinamite a pochi secondi l’una dall’altra. La televisione nazionale siriana Al-Ikhbariya al-Suriya dopo meno di mezz’ora interrompe i programmi e manda in onda le immagini raccapriccianti di morti e feriti, decine di veicoli in fiamme e civili nel panico. Secondo le ricostruzioni dei giornalisti legati al regime, la prima deflagrazione avviene di fronte al quartier generale dell’intelligence militare, nel quartiere blindato di Kafar Sousah, non lontano dalla palizzata che circonda gli uffici della «Sicurezza Generale» (i temibili servizi di informazione legati al ministero degli Interni). Quando le guardie di quest’ultimo si avvicinano per verificare i danni della prima esplosione, la seconda autobomba penetra la loro zona rimasta sguarnita e quindi esplode. Il fatto più curioso è che i massimi portavoce dello Stato siano rapidissimi a concludere che «i mandanti dell’attentato vanno cercati tra le file di Al Qaeda». L’evento è preoccupante. Nonostante la sua prossimità geografica con Libano e Iraq, la Siria non ha quasi mai visto attentati suicidi sul suo territorio. L’opinione pubblica ancora fedele al regime chiede spiegazioni. E la risposta va a pennello con le tesi rilanciate con forza nelle ultime settimane dallo stesso presidente Bashar al-Assad: «La ribellione è in mano ai terroristi. Se vincessero sarebbe la vittoria di Al Qaeda». Una spiegazione che, guarda caso, arriva con un tempismo perfetto per cercare di convincere gli osservatori della Lega araba che i ribelli vanno battuti in ogni modo.
Ma è proprio la curiosa coincidenza tra attentati e presenza degli osservatori della Lega a dare argomenti ai gruppi della ribellione. «È tutta una macchinazione della dittatura. Usa il terrorismo per delegittimarci e criminalizzarci. Gli autori delle stragi non siamo noi, che oltretutto non avremmo neppure i mezzi per compiere attentati tanto complessi, ma piuttosto loro», replicano all’unisono gli esponenti dell’Esercito siriano libero, l’organizzazione che cerca di coordinare i disertori dell’esercito regolare in una nuova forza combattente rivoluzionaria, e i politici del Consiglio nazionale siriano fuggiti in esilio. A loro dire inoltre la repressione militare continua sempre più crudele. Dopo le centinaia di morti tra lunedì e giovedì, ieri le vittime sarebbero state in un numero compreso tra 20 e 35, specie nelle zone di Idlib, Homs e Deraa. La ferrea censura imposta dalla dittatura contro i giornalisti e gli osservatori stranieri rende quasi impossibile qualsiasi verifica indipendente.
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