Israele, migliaia contro gli ultrà  religiosi “No alla segregazione delle donne”

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BET SHEMESH (Israele) – Arrivano alla spicciolata. Coppie di anziani, famiglie e frotte di ragazzini. Si inerpicano su una collina a passi spediti finché non raggiungono il piazzale antistante la scuola femminile religiosa Orot. Na’ama Margolis, il nuovo simbolo della lotta israeliana contro la segregazione delle donne negli ambienti ultraortodossi, abita solo trecento metri più in là . Ha poco più di sette anni. Venerdì scorso ha raccontato tra le lacrime a una tv israeliana di non volere più andare a scuola per paura degli insulti e degli sputi degli zeloti che giudicano i suoi abitini colorati o le sue maniche corte “immodesti”. C’è voluto quel pianto per mobilitare media e politici contro le molestie subite dalle donne non osservanti nei quartieri di Bet Shemesh popolati dagli haredim, ebrei ortodossi, più estremisti. «Salviamo l’anima della nazione. Tutti dobbiamo mobilitarci per liberare la maggioranza dalle grinfie di una minoranza esigua. Non sono loro i padroni» ha detto il presidente israeliano Shimon Peres. E all’appello del premio Nobel per la pace hanno risposto a migliaia. Lo slogan scandito o stampato su magliette e adesivi è sempre lo stesso: “Bet Shemesh non è una città  violenta”. 
A metà  strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, Bet Shemesh sembrerebbe una sonnolenta cittadina di provincia. Lo scenario cambia solo se ci si inoltra su una collinetta nei quartieri chiamati Ramat Bet Shemesh Alef e Bet. Qui donne e uomini camminano su marciapiedi diversi e siedono su lati opposti degli autobus: gli uomini avvolti da lunghi paltò neri e i boccoli – le peot –raccolti dietro le orecchie; le donne con gonne lunghe sin sotto le ginocchia. «Dieci anni fa questi quartieri non esistevano. Hanno cambiato il volto della città . Oggi quasi metà  della sua popolazione è costituita da haredim», dice David che è nato qui 55 anni fa. «A irritarli basta davvero poco», aggiunge Richard. «Hanno sputato più volte anche addosso a mia figlia che ha vent’anni. Ma ora ne abbiamo abbastanza».
A inveire contro le donne meno tradizionaliste sono però i rappresentanti di una frangia più estremista degli ultraortodossi: vengono chiamati Sikrikim, dal latino “sicari”, come i zeloti che, duemila anni prima sotto l’occupazione romana, brandivano pugnali, “sica”, contro gli altri ebrei. Vivono proprio alle spalle della scuola Orot e ascoltano i politici che si succedono sul palco della manifestazione assiepati davanti al portone delle loro abitazioni. Un ragazzo lancia una provocazione. L’atmosfera si riscalda. Ma a evitare tafferugli intervengono le forze speciali della polizia. Solo il giorno prima i Sikrikim avevano preso a sassate gli agenti chiamati a rimuovere i cartelli stradali discriminatori e i giornalisti televisivi giunti a riprendere la scena. Oggi in minoranza sono loro.
Un giovane haredi dal grande cappello nero a falda larga osa comunque avventurarsi tra la folla: «Odiano tutti gli haredim, ma i violenti sono una minoranza nella nostra comunità », commenta. Un altro gruppo si unisce alla manifestazione brandendo cartelloni colorati che recitano: “Non siamo tutti Sikrikim”. «Siamo qui – spiega Yehuda Kotkas – perché non crediamo nella violenza e non vogliamo essere assimilati con i violenti. Anzi vogliamo che la polizia intervenga per isolarli». Lo scrittore israeliano Etgar Keret, raggiunto al telefono, è pessimista: «Non cambierà  molto. Gli haredim estremisti non vivono secondo la legge, ma secondo la Bibbia. Se sputano o malmenano la gente è perché non temono di venire portati davanti alla giustizia. E la colpa è del nostro debole governo che condanna la violenza solo a parole senza mai perseguirla».


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