Il (vero) conto dei sacrifici più pesanti

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Poi c’è la riforma strutturale. Il metodo di calcolo contributivo per tutti andava introdotto molto prima, ma il ministro non c’entra. Se sindacati e governo nel ’95 (riforma Dini) non fossero stati miopi, scaricando tutto sui giovani, forse ci saremmo risparmiati le riforme successive. Oggi il provvedimento arriva troppo tardi, ma è meglio di niente. La gran parte dei lavoratori che nel ’95 aveva più di 18 anni di contributi è già  andata in pensione col più vantaggioso metodo retributivo. Quei pochi che si vedranno calcolare gli ultimi anni col contributivo ci rimetteranno pochissimo.
Di fatto, dal 2012, spariscono le pensioni di anzianità . Non ci sono più le «quote»: significa lavorare 5-6 anni in più. Questa è la misura che farà  più male. Prendiamo il caso limite di uno che ha cominciato a lavorare a 15 anni. Oggi potrebbe andare via a 56 anni, dopo 41 di servizio (compresa la «finestra mobile»). Dal 2012 ne saranno invece necessari 42. Ma se il lavoratore del nostro esempio volesse uscire prima dell’età  di vecchiaia avrebbe un assegno ridotto del 2% per ogni anno di anticipo. Qui il sacrificio, rispetto alle regole attuali, è davvero grande. Notevole, inoltre, l’aumento dell’età  per la pensione di vecchiaia per le donne del settore privato.
In prospettiva lavoreremo tutti fino a 70 anni d’età  e per più di 40 anni. Un brusco risveglio dopo gli eccessi del passato. Ora però vorremmo essere sicuri che questa pensione-miraggio, quando arriverà , sia almeno adeguata a vivere. Spetta a questo governo e ai prossimi rassicurarci.


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