Il tramonto di Ligresti segnato dalla resa dei conti con la nuova Mediobanca
MILANO – «La vendetta è ormai completata – sostiene un finanziere milanese di lungo corso – Ligresti aveva tradito Maranghi e i suoi successori Pagliaro e Nagel da allora hanno lavorato con un solo obbiettivo, mettere nell’angolo il costruttore siciliano». E così sta avvenendo se è vero che con l’aumento di capitale da 750 milioni di Fondiaria-Sai la quota di Premafin rischia di azzerarsi, lasciando Salvatore Ligresti e famiglia letteralmente in braghe di tela.
La galassia del costruttore arrivato a Milano da Paternò alla fine degli anni ’50 è vicina al collasso. I debiti delle finanziarie Imco e Sinergia si sono mangiati il valore dell’attivo e il saldo è negativo per circa 370 milioni, con la quota di Fonsai valutata a prezzi di mercato. L’unico modo di salvarsi, per Ligresti, sarebbe trovare qualcuno disposto a rilevare il controllo di Premafin e per questa via seguire l’aumento di capitale che verrà lanciato in febbraio. Ma Mediobanca gli sta sbarrando anche questa porta: tramite l’alleato Unicredit sta negando qualsiasi tipo di ristrutturazione del debito nelle società a monte, dove la banca di Piazza Cordusio è esposta per 550 milioni. La scelta di Dieter Rampl e Federico Ghizzoni, solo sei mesi fa, di sostenere ancora Ligresti erogando nuovo credito alle finanziarie ed entrando direttamente nel capitale Fonsai si sta rivelando disastrosa. Dei 180 milioni investiti 160 si sono volatilizzati con il crollo del titolo in Borsa e ora gli azionisti Unicredit dovrebbero chiedere conto di tale insipienza.
D’altronde l’inserimento di Piergiorgio Peluso nella compagnia assicurativa dei Ligresti come direttore finanziario sta facendo emergere una realtà per troppo tempo nascosta. Dopo la pulizia di settembre, a fine anno sarà ancora peggio se è vero che si dovrà procedere a svalutazioni di riserve, immobili e partecipazioni per 1,3 miliardi di euro. Una cifra talmente imponente da far scendere il patrimonio della società intorno a 2 miliardi e mettere a rischio la stabilità della compagnia. Tanto che Mediobanca, esposta verso Fonsai con diversi prestiti subordinati per 1,05 miliardi, in assenza di un nuovo aumento di capitale rischiava di dovere anch’essa svalutare il credito e ipotecare così l’intero utile d’esercizio. Si spiega così il pressing di Pagliaro e Nagel per arrivare entro fine anno a una delibera sulla ricapitalizzazione che metta in sicurezza la compagnia pur con le nuove svalutazioni in arrivo. Non solo. Con il blocco via Unicredit, piazzetta Cuccia vuole anche costringere l’ingegnere di Paternò a indirizzare i diritti di opzione dell’aumento in possesso di Premafin verso un gruppo amico, probabilmente il fondo Clessidra di Claudio Sposito. Ma limitando ancor di più i margini di manovra di Ligresti che sta cercando di limitare i danni dopo dieci anni di gestione scriteriata. Sull’uscio, chiamato dall’advisor Gerardo Braggiotti, si è presentato Matteo Arpe forte di una buona liquidità da investire. Un’opzione per il 51% di Premafin sarebbe il primo passo, esente da Opa perché trattasi di salvataggio. Ma perché diventi un affare occorre che le banche ai piani di sopra si siedano al tavolo per ristrutturare il debito, cosa che finora hanno negato. Bisognerà vedere se questa posizione sarà sostenibile a lungo, anche se un ingresso di Arpe in Fonsai vorrebbe dire mettere in mani esterne al sistema il 5% di Mediobanca e il 5% di Rcs, gangli vitali della finanza italiana.
Le alternative sono un ingresso della Cdp per traghettare Fonsai in un polo con qualche altra compagnia nostrana che non sia Generali – potrebbe essere Unipol – e lontano dalle mire della francese Axa. Dopo due salvataggi operati da Cuccia nei primi anni ’90, la Fondiaria sfilata dall’Opa degli Agnelli su Montedison nel 2001, il tradimento di Maranghi successivo alla scalata Generali del 2004 e due compagnie spolpate per anni, ora i nodi per Ligresti vengono al pettine. Ma il finale è ancora da scrivere.
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