by Editore | 20 Dicembre 2011 9:21
Se va bene, potremmo farla finita persino con la fame nel mondo. Con la sua bacchetta magica la ministra Elsa Fornero ha compiuto il miracolo: via l’art. 18, dice, liberiamo le imprese da questo odioso laccio rendendo più facili i licenziamenti e vedrete che la macchina si rimetterà in moto. Magari introducendo una norma contro le discriminazioni politiche, ma per il resto liberi tutti. Tutti chi? I padroni, naturalmente. Per carità , se un lavoratore è licenziato ingiustamente dev’essere risarcito: prendi questi quattro soldi e ritenta la sorte da qualche altra parte.
Ci risiamo. Con un accanimento degno di miglior causa, finalizzato solo a regolare i conti con il Novecento, riparte l’assalto a un diritto che, con un’operazione subdola quanto stantia, viene declassato a privilegio. Di che stiamo parlando? Del fatto che se un dipendente in un’azienda con più di 15 dipendenti è messo fuori e il giudice ritiene il licenziamento ingiusto, quel lavoratore dovrà essere riassunto nello stesso luogo a parità di trattamento. L’azienda condannata può comunque opporsi alla sentenza, ha a disposizione altri due gradi di giudizio. Sarebbe questa la causa di tutti mali, contro cui destre e Confindustria hanno sempre scagliato i loro strali? Sarebbe l’art. 18 a far perdere il sonno persino a tanta intellighentia democratica? Le armate del giuslavorista del Pd Pietro Ichino si sono infoltite con l’arrivo della Fornero, a cui la parola sacrifici strappa lacrime mentre la sua sensibilità non sembrerebbe colpita da chi è stato licenziato ingiustamente. Basta pagare il giusto, ma al padrone dev’essere garantita massima flessibilità . Del resto, anche al padrone dell’amianto Schmidheiny che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti nel mondo e di 1.800 solo a Casale, il consiglio comunale di questa città monferrina ha consentito di monetizzare i morti di oggi e di domani in cambio della rinuncia alla costituzione di parte civile. La logica è la stessa: fai quel che ti pare del futuro e della vita delle persone, purché tu sia disposto a pagare un obolo alla coscienza collettiva. Non è sufficiente la già prevista causa di crisi a consentire i licenziamenti. L’importante è evitare le rappresaglie politiche. E quando mai i padroni hanno licenziato un operaio accusandolo di essere comunista, o della Fiom, o magari gay? Ci sono molti modi più subdoli per liberare le linee o gli uffici da un «avversario».
L’ultimo imbroglio della ministra che promette «la riforma del ciclo di vita» (qui siamo oltre il miracolo) è il tentativo maldestro, anch’esso stantio, di contrapporre i privilegi dei «vecchi» alla condizione precaria dei giovani. C’era bisogno di cambiare governo per continuare a sentire queste banalità ? La precarietà è ancor più pesante nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove lo Statuto non entra: come la mettiamo? E non basta ancora la progressiva sterilizzazione dell’art. 18 operata dal governo Berlusconi?
Era il 24 marzo del 2001 quando tre milioni di italiane e italiani occuparono Roma in difesa dell’art. 18, il ministro dovrebbe ricordarselo. E dovrebbe ricordarsi che un altro ministro del lavoro, piemontese come lei, aveva varato lo Statuto. Si chiamava Donat Cattin, era democristiano. Sarebbe stato meglio morire democristiani?
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