Il premier e la strategia dell’isolamento per evitare un colpo al cuore della City

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IERI le prime pagine della maggior parte dei quotidiani più venduti nelle edicole della Gran Bretagna acclamavano il primo ministro David Cameron come un eroe. Essendosi rifiutato di unirsi agli altri membri dell’Unione Europea nell’approvare un trattato concepito per salvare l’euro, questi ha visto il proprio nome elevato all’Olimpo dei grandi, accanto a quello Margaret Thatcher. Il primo ministro ha difeso la Gran Bretagna; riaffermato l’interesse nazionale; privilegiato l’attuale democrazia britannica a scapito della remota prospettiva di una possibile democrazia chiamata Europa. Per eccesso di semplificazione, i tabloid hanno causato confusione. E non è la prima volta. Certo non possono sapere – poiché nessuno può saperlo – se il veto di Cameron si tradurrà  o meno in un vantaggio per la Gran Bretagna. Non lo sapremo prima di Natale. Forse lo si scoprirà  l’anno prossimo. Il primo ministro non ha scelto tra “Gran Bretagna ed Europa”, ma tra due incognite. Chi critica la sua scelta ritiene che così facendo Cameron abbia isolato la Gran Bretagna dalle politiche che vengono discusse e adottate dai Paesi dell’Ue – suo principale partner commerciale. La Gran Bretagna, che non è mai entrata a far parte del “club dell’euro”, oggi rischia di vedersi (di fatto, se non de iure) estromessa da tutti i suoi processi decisionali. La decisione di Cameron ha fatto andare su tutte le furie i principali architetti dell’iniziativa: la cancelliera Angela Merkel, in primo luogo, e il presidente Nicolas Sarkozy. L’emergere di un’Europa “a due velocità ” – o meglio, a tre – appare oggi molto più probabile. Con la Gran Bretagna nella corsia esterna, i membri Ue che non hanno adottato l’euro in quelle centrali, e i Paesi dell’euro che occupano l’anello interno. La principale motivazione del veto – ovvero, il desiderio di salvaguardare il centro finanziario della City londinese – potrà  forse solo ritardare dei cambiamenti ormai inevitabili, dal momento che l'”inner core” del sistema economico potrebbe accordarsi su ampie modifiche da apportare al mercato del lavoro e alle aliquote fiscali, ivi compresa la “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie. Ma ancora più convincenti, per lo stesso Cameron, sono le seguenti argomentazioni: innanzitutto, quella prettamente politica (che nessun primo ministro, in nessuna parte del mondo, può ignorare). Il suo partito ha quasi unanimemente sposato un atteggiamento euroscettico, che varia dal moderato (la posizione di Cameron) all’irremovibile (come nel caso di coloro che vorrebbero che la Gran Bretagna uscisse completamente dalla Ue). Accettando il piano europeo, Cameron avrebbe allontanato da sé il proprio partito, e forse perso la sua stessa leadership. Tuttavia l’aspetto prettamente politico non basta a riassumere la situazione. La City di Londra rappresenta per la Gran Bretagna un interesse di importanza vitale, poiché contribuisce enormemente alla base tributaria e dà  lavoro a centinaia di migliaia diindividui. È, insieme a New York, uno dei due maggiori centri della finanza mondiale. E benché la Gran Bretagna possa ancora contare su delle industrie fiorenti, nessuna credibile espansione della sua base industriale potrebbe mai compensare degli ingenti danni arrecati alla City. Qualsiasi primo ministro avrebbe cercato di proteggerla, come ha fatto Cameron – soprattutto se si pensa che tanto Parigi che Berlino hanno chiaramente manifestato l’intenzione di voler puntare sul settore finanziario per aumentare le entrate. Né si può fingere di ignorare che non esiste alcuna garanzia che l’accordo funzionerà . O che sarà  ratificato dai Parlamenti di quei ventisei Paesi i cui leader lo hanno sottoscritto. Benché questi abbiano accettato di realizzare, e in tempi molto rapidi, un’unione fiscale che prevede sanzioni automatiche per chi non sottostà  alla regole comuni, i rappresentanti eletti dei Paesi da loro rappresentati – tutte democrazie – potrebbero affermare, e a ragione, che la questione meriti di essere dibattuta, messa al voto. E forse, respinta. I mercati, infine, non hanno ancora emesso il loro verdetto. Nelle settimane che ci separano dal Natale le temutissime e controverse agenzie di rating potrebbero procedere al downgrading di qualcuno degli Stati più importanti d’Europa – come già  hanno fatto con alcune delle più importanti banche di Francia e Germania, appesantite dal debito greco e italiano. I tassi di interesse del debito sovrano potrebbero tornare a salire, sino a raggiungere livelli insostenibili. E l’implementazione di una reale (anziché retorica) disciplina fiscale tra Paesi le cui posizioni economiche e finanziarie sono così diverse – e delicate, e indebolite dalla crisi – diventerebbe addirittura più difficile. Come ha commentato ieri Robin Niblett, direttore dell’istituto di politica estera Chatham House: «In questo momento, per il Regno Unito, la decisione di rimanere in panchina potrebbe non essere così malvagia». Oggi nei centri politici d’Europa si prova una profonda amarezza nei confronti di David Cameron e della Gran Bretagna. Su un punto, tuttavia, occorre riflettere: Cameron (a dispetto di quanto suggerito dai titoli dei giornali) non ha compromesso l’esito dell’accordo. Questo infatti andrà  avanti, attraverso una serie di patti intergovernativi. La Gran Bretagna potrebbe aver compiuto la scelta sbagliata, e in tal caso ne pagherà  le conseguenze. Ma se questo ennesimo piano non dovesse funzionare, non sarà  per colpa della Gran Bretagna – che tradizionalmente se ne sta in panchina, e la cui influenza sull’eurozona è da sempre marginale. I prossimi mesi ci diranno quanto pericolosa, o quanto saggia, è stata la sua decisione. (Traduzione di Marzia Porta)


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