by Editore | 19 Dicembre 2011 9:13
ROMA — La chiesa del «Padre nostro» dentro Rebibbia è a pianta circolare, fuori c’è una statua di padre Pio e dentro, lungo la parete di mattoni a vista, i secondini circondano i trecento detenuti che nell’attesa sono invitati a cantare «Tu scendi dalle stelle»: il carcere è davvero un modo a parte se il cappellano sente il bisogno di spiegare a quegli uomini dagli sguardi induriti e insieme dolenti, come fossero bimbi, che «il Papa nuovo si chiama Benedetto XVI» ma «il suo nome è Joseph Ratzinger». Eppure quel senso di distanza svanisce quando entra il pontefice e i carcerati si sporgono per tendergli la mano e lui comincia a dialogare con loro, più tardi nel seguito papale si considererà con stupore: «Mai nessun Papa aveva parlato così spontaneamente ai carcerati. Mai».
Perché c’è l’intervento nel quale Benedetto XVI denuncia il «sovraffollamento e degrado delle carceri» che «possono rendere ancora più amara la detenzione», chiede alle «istituzioni» una «attenta analisi» tra «strutture, mezzi e personale» in mondo che «i detenuti non scontino mai una doppia pena», invoca «il ricorso anche a pene non detentive o a modalità diverse di detenzione». Ma poi, soprattutto, c’è il dialogo con i carcerati, «sono commosso da questa amicizia», il Papa che risponde a sei domande e a braccio dice cose straordinarie. Come quando un detenuto dell’infermeria, Federico, gli dice che «troppo poco si parla di noi, spesso in modo così feroce come a volerci eliminare dalla società », e Benedetto XVI replica con un sorriso: «Dobbiamo sopportare se alcuni parlano in modo feroce, parlano in modo feroce anche contro il Papa e tuttavia andiamo avanti, bisogna andare avanti».
Il pontefice ricorda che «lo stesso Signore Gesù ha fatto l’esperienza del carcere» e «là dove c’è un carcerato, lì c’è il Cristo». Le sue parole non cadono dall’alto, con semplicità spiega: «Sono venuto qui perché so che in voi il Signore mi aspetta». Omar l’africano gli dice «ti voglio bene» e piange. «Anche io ti voglio bene», mormora il Papa. «Non mi fanno tornare a casa», protesta il neopapà Alberto, e Ratzinger: «È importante che il padre possa tenere in braccio la figlia». Gianni lo abbraccia «a nome di tutti», gli regalano pure uno strudel, alla fine gli applausi non finiscono più. Come per il Guardasigilli Paola Severino («mi-ni-stro!») che saluta il pontefice con le parole di una lettera consegnatale da un detenuto a Cagliari («Non c’è posto, oggi come duemila anni fa, per chi è senza voce…») e conclude: «La custodia in carcere deve essere sempre disciplinata in modo da rappresentare una misura veramente eccezionale e transitoria» perché ogni sanzione «deve coniugare riparazione, rieducazione e reinserimento sociale».
Dietro le grate con il bucato appeso ad asciugare alcuni gridano «amnistia, amnistia» all’uscita del Papa. Ma di questo, ieri, non si è parlato. Del resto le parole del pontefice suonano in sintonia con la linea del Guardasigilli. Dentro la chiesa si sorride quando Ratzinger — sarà che vive a Roma da trent’anni — ripete tre volte l’espressione «il nostro governo». Lo fa mentre spiega che la sua visita è certo «personale, a voi» ma vuole anche essere «un gesto pubblico»: per ricordare «ai nostri concittadini, al nostro governo, che ci sono dei grandi problemi e difficoltà nelle carceri italiane». La giustizia «implica come primo fatto la dignità umana». E le carceri «devono essere costruite in modo che tale dignità sia rispettata e non attaccata». Quindi aggiunge: «Abbiamo sentito come il ministro della Giustizia senta con voi, come senta tutta la realtà vostra, e così possiamo essere convinti che il nostro governo e i responsabili faranno il possibile per migliorare questa situazione». Perché una cosa è essenziale: «Non creare un abisso tra la realtà carceraria concreta e quella pensata dalla legge. La vita umana appartiene a Dio solo, e non è abbandonata alla mercé di nessuno».
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