by Editore | 28 Dicembre 2011 8:38
Cosa potranno fare nella Siria martoriata dalla guerra civile e dalla durissima repressione militare gli osservatori della Lega Araba? Riusciranno davvero a vedere i feriti negli ospedali? Le fosse comuni? Le vittime delle torture? I bombardamenti dei lealisti armati di aviazione, forze corazzate e artiglierie? Potranno contare i prigionieri, cercare desaparecidos?
I dirigenti e gli attivisti della rivoluzione che da metà marzo insanguina il Paese non ci credono, o comunque restano profondamente scettici. Difficile dar loro torto: come fidarsi di una dittatura che da anni vieta le libertà civili, reprime la dissidenza, controlla a bacchetta i media? Il solo fatto che da marzo blocchi o censuri tutte le organizzazioni umanitarie internazionali e impedisca alla stampa estera di visitare il Paese in modo indipendente dovrebbe far riflettere sui limiti imposti alla prima missione di osservatori stranieri giunta sul posto.
Si spiega anche così la scelta ieri di larga parte dei manifestanti residenti nella città martire di Homs di scendere in piazza per accogliere i primi sette inviati della Lega Araba. Da metà mattinata si è messo in moto massiccio, incalzante, aggressivo il tam tam dell’informazione alternativa sul quel grande motore primo della «primavera araba» che è la Rete. Le fonti legate alla rivolta ci parlano di «oltre 70.000» manifestanti decisi a raggiungere la centralissima piazza dell’Orologio. Ma non ci sono conferme indipendenti. La stupidità intrinseca della censura ha in sé il germe dell’autodistruzione: se il regime non ci lascia andare a vedere e raccontare in prima persona, noi diamo automaticamente più credito ai suoi nemici.
I filmati mandati in onda su YouTube ci mostrano alcuni attivisti che cercano di convincere gli inviati stranieri a recarsi in alcuni quartieri particolarmente violenti (per esempio quello di Bab Amro) e loro che udendo gli spari cambiano strada. Piazza dell’Orologio è un simbolo per questa Sarajevo della rivoluzione siriana. Sempre secondo i giovani delle rivolte, il 18 aprile vi furono massacrate in poche ore oltre 300 persone. Ieri sembra siano stati fermati a suon di lacrimogeni, ma anche di proiettili veri. Dopo gli oltre trenta morti segnalati lunedì, il bilancio di ieri sfiora ancora la trentina (forse 34). Non solo a Homs, ma anche e Idlib e Deraa, due altre città particolarmente colpite dalle violenze, senza parlare delle decine di villaggetti sperduti sulle colline boscose a ridosso del confine con la Turchia che sono sotto assedio da settimane.
La verità è che si sa molto poco di ciò che sta avvenendo in Siria. I capi della rivolta sperano nelle defezioni tra i quadri dell’esercito. Che pare siano davvero numerose, ma i quadri scelti tra gli alawiti (la setta sciita legata agli Assad), oltre alle minoranze drusa e cristiana, restano fedeli al regime contro il crescere del malcontento sunnita.
«Oggi è stata una giornata molto buona. Entrambi i campi hanno collaborato con zelo», ha dichiarato il capo della missione della Lega a Homs, generale sudanese Mustafa Dabi. Ma le opposizioni sostengono che si tratta solo di un trucco per prendere tempo. E accusano i lealisti di aver rimosso i carri armati (almeno 11) dal centro di Homs e di averli nascosti nelle vicinanze pronti a colpire ancora, di aver prelevato i feriti dagli ospedali, di aver spostato i prigionieri in campi militari vietati agli osservatori.
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