Il braccialetto elettronico? “Un costo dal risultato imprevedibile”

by Sergio Segio | 1 Dicembre 2011 18:13

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BOLOGNA – Sono circa 67 mila i detenuti nelle carceri italiane. Circa 20 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Di questi circa il 40% ha una condanna definitiva, mentre quasi il 50% è in attesa di giudizio. In questa situazione il carcere non può funzionare. “Perché l’istituzione carcere possa andare avanti in una prospettiva di razionale ed economica gestione – dice Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna – è necessario abbassare notevolmente il numero dei detenuti”. Ma in che modo?
Il neo ministro della Giustizia, Paola Severino, ha proposto tra le possibili soluzioni per affrontare il sovraffollamento anche l’utilizzo del braccialetto elettronico, già  sperimentato in passato in Italia (senza molto successo) e utilizzato oggi in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti. Sull’uso del braccialetto, Maisto si limita ad augurare “buon lavoro” a chi deciderà  di ripercorrere una via già  percorsa in passato da altri, sempre in un’ottica deflattiva, ma senza grandi risultati. Insomma, secondo Maisto, “con il braccialetto elettronico, ci si accinge a un costo dai risultati imprevedibili”. Ecco perché il magistrato pensa, piuttosto, ad altre soluzioni che possano essere attuate a “leggi ferme”, ovvero senza interventi del Parlamento trattandosi di atti amministrativi, come far funzionare a pieno regime i Tribunali di sorveglianza e farli lavorare in rete con l’Amministrazione penitenziaria. Ma propone anche la modifica delle ultime leggi che hanno portato rallentamenti nell’applicazione delle misure alternative.

Di utilizzare il braccialetto elettronico in Italia si parla dal 1994. E nel 2001 c’è anche stata una sperimentazione. Ma non andò a buon fine: un detenuto fuggito e uno che chiese di tornare in carcere perché il braccialetto suonava in continuazione. Poi nel 2003 venne firmato un contratto da 100 milioni di euro con Telecom per gestire braccialetti e assistenza tecnica, ma dei 400 dispositivi acquistati, ne sono stati utilizzati meno di 10. “L’attuale ministro non è il primo a esordire con il rilancio del braccialetto elettronico – spiega Maisto – ma bisognerebbe chiedersi, in un momento di recessione come quello che stiamo vivendo, se è il caso di implementare uno strumento tecnologico che serve solo al controllo, perché per quello scopo basta la detenzione domiciliare”. La prospettiva non può essere solo il controllo del detenuto, ma deve esserci qualcosa di più.

Quali soluzioni, dunque? Far andare a pieno regime i Tribunali di sorveglianza e farli lavorare in rete con l’Amministrazione penitenziaria. Sono questi i primi due interventi da attuare secondo Maisto. “Abbiamo una marea di arretrati sulle liberazioni anticipate, che, tra l’altro, riducendo la pena permettono il ricorso alle misure alternative – spiega – e capita spesso che il personale dei tribunali di sorveglianza venga distaccato in altri uffici, bloccando di fatto il lavoro”. Come accadrà  a Modena, dove dal primo dicembre nell’ufficio di sorveglianza (che dipende dal Tribunale di Bologna e ha la competenza su 2 case lavoro e 1 casa circondariale) non ci sarà  più la cancelleria ma solo il magistrato. “Altro passo importante è creare un’interfaccia, oggi inesistente, con l’amministrazione penitenziaria – continua Maisto – Se mi arriva una richiesta di liberazione anticipata senza la relazione sul comportamento del detenuto, dovrò richiederla, aspettare la risposta della direzione del carcere e nel frattempo passa del tempo”. Deve esserci insomma la possibilità  di un confronto diretto per “abbattere i tempi morti”.

Negli ultimi anni ci sono state diverse leggi che hanno limitato il ricorso alle misure alternative. Se prima dell’indulto c’erano 40 mila detenuti in carcere e altrettanti in misura alternativa, oggi quelli in misura alternativa sono circa 18 mila. “È dimostrato che chi ottiene le misure alternative ha una recidività  molto più bassa rispetto a chi esce dal carcere senza queste misure” precisa il magistrato. Tra le proposte ci sarebbe anche quella di prevedere che, ad esempio, nei giudizi per direttissima il giudice debba sentire le comunità  o le cooperative sociali per decidere se l’imputato possa essere mandato, anziché in carcere, in comunità . In questo modo si eviterebbe il passaggio dal carcere (riducendo anche i costi). Tra le leggi “responsabili” di aver chiuso lo spettro di applicazione delle misure alternative ci sono la legge Cirielli, la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi. “Bisogna rivedere ostatività  e blocchi ma anche l’eccessiva burocratizzazione introdotta dalla Fini-Giovanardi per l’esecuzione penale – precisa Maisto – Pensiamo, ad esempio, alle relazioni complesse a cui sono costretti gli operatori dei Sert per non vedersi rigettare le istanze”. Anche la stessa legge Alfano 199/2010 (la cosiddetta “svuota carceri”) non ha sortito gli effetti sperati: in circa 1 anno di applicazione ha fatto uscire poco più di 3.000 detenuti in tutta Italia. “Non è servita ai fini deflattivi perché richiedeva la presenza di un domicilio per chi usciva e, spesso, queste persone un domicilio non l’avevano – conclude Maisto – Ma per fare in modo che il carcere faccia bene il suo mestiere, bisogna liberarlo dalla detenzione sociale: ma per farlo serve una testa non ‘carcero-centrica’”. (lp)

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