by Editore | 18 Dicembre 2011 10:32
Da un lato c’è l’impuntatura anticlericale, carica di pregiudizi e di non poca disinformazione; dall’altro, la chiusura a riccio del fronte clericale che vede nella semplice sollevazione della questione un’aggressione alla Chiesa come istituzione.
Bisogna, invece, ragionare, a partire dal riconoscimento di alcuni dati di fatto. Il primo è la crisi economica che il Paese sta attraversando: l’attuale governo ha chiesto duri sacrifici, i cui effetti, sul terreno delle politiche sociali e assistenziali, sono oggi percepiti con preoccupazione dagli amministratori locali, ma non sono stati ancora compresi sino in fondo dalla cittadinanza e soprattutto dalle fasce più deboli della popolazione che pagheranno il prezzo più alto. In un simile contesto, se riconosciamo la criticità di questa fase storica, è giusto che qualunque istituzione presente in Italia si impegni più del normale e persino del dovuto per contribuire ad attutire le conseguenze dell’emergenza favorendo la raccolta delle risorse e il loro spostamento a protezione dei più deboli, avendo come stella polare il valore dell’equità .
Il secondo è il riconoscimento del ruolo sociale della Chiesa cattolica nel nostro Paese. Essa svolge una funzione di supplenza preziosa quanto silente, si pensi solo alle mense della Caritas, operando con delicatezza e amore laddove la mano pubblica non riesce ad arrivare. Il merito principale di questa azione è quello di considerare l’altro da sé anzitutto una persona, a prescindere dai diritti di cittadinanza che gli sono riconosciuti come individuo. Senza retorica: si tratta di un esercito disarmato di poveri, stranieri, deboli, malati che vive ai margini delle nostre consumistiche esistenze e riceve un pasto, un ascolto, uno sguardo.
Il terzo dato è la necessità , non solo per i politici, ma anche per gli uomini di Chiesa di far sì che le parole siano il più possibile coerenti ai fatti. Sotto questo profilo, le dichiarazioni del cardinale Bagnasco di ieri lasciano ben sperare perché riconoscono la necessità di “chiarire e di fare alcune precisazioni” sul tema della qualità delle esenzioni fiscali oggi previste e si dicono disponibili a “valutare la chiarezza delle formule normative vigenti”. Ammettono cioè l’esistenza di un problema che è bene mettere a fuoco, spazzando il campo dalle dispute ideologiche e mostrando un’effettiva volontà di collegare i pronunciamenti valoriali alla concretezza delle pratiche.
La Chiesa già oggi paga l’Ici per gli spazi commerciali, mentre invece è esentata dal farlo laddove si è in presenza di un uso dell’immobile legato alla fede, al culto o all’assistenza sociale. È giusto che sia così perché, come ha ricordato il cardinale Bagnasco, il mondo della solidarietà non può essere tassato al pari di quello del business. Quanti, invece, ritengono che ciò debba avvenire senza compiere distinzioni sbagliano perché attaccano un insieme di beni e di valori comuni, come il volontariato e la solidarietà , che costituiscono il cuore pulsante del tessuto civile italiano. Il problema, però, è nella zona grigia presente nell’attuale normativa che consente di trasformare la solidarietà in business. Sono infatti previsti luoghi di carattere “parzialmente” commerciale che godono dell’esenzione fiscale in modo legittimo, ma ingiusto. Di conseguenza, se il proprietario dichiara che l’uso sia solo in parte con finalità di profitto non ha l’obbligo di pagare l’Ici. Facciamo un esempio concreto: oggi può non versare l’imposta quell’albergo gestito da un ordine religioso o da un movimento ecclesiale, magari sorto accanto a un luogo di culto, che di fatto fornisce servizi in un regime di libera concorrenza a strutture private. E può non farlo perché gli viene riconosciuto un uso “parzialmente” commerciale che lo rende esente. Il secondo problema è legato all’inevitabile prossimità ambientale che, a livello comunale, può crearsi tra il sindaco che dovrebbe riscuotere la tassa e le autorità ecclesiastiche diocesane che possono eventualmente svolgere pressioni affinché ciò non avvenga. Si ha la viva impressione che alcune finalità commerciali si nascondano sotto il mantello dell’attività sociale o religiosa, un’impressione che, per fare un esempio, la recente parabola milanese di don Verzé rende particolarmente acuta.
Per risolvere questa situazione basterebbe svolgere un censimento degli immobili ecclesiastici che distinguesse con chiarezza le funzioni sociali e religiose da quelle meramente commerciali. In secondo luogo, sarebbe importante superare questa ambiguità interpretativa della legge, in cui si annida certamente il privilegio e, in alcuni casi, anche l’interessata contiguità tra amministrazione ecclesiastica e funzione pubblica. In questo modo si lancerebbe un messaggio costruttivo al corpo sociale che aiuterebbe a superare tante sterili polemiche che spesso nascono proprio con l’obiettivo di coprire i veri problemi e di evitare di risolverli, un atteggiamento che l’Italia di oggi non può più permettersi.
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