by Editore | 28 Dicembre 2011 7:01
Un pessimo compleanno, di quelli in cui la salute del festeggiato appare sempre più precaria, i medici non sembrano all’altezza e, fra i presenti, ci si interroga apertamente sulle probabilità di un decesso. Francamente, non se l’aspettava nessuno: perché nonostante i dubbi iniziali, i primi dieci anni dell’euro, entrato nelle nostre tasche il 1 gennaio 2002, sono stati un lungo successo. Almeno per otto anni, la moneta unica ha assicurato all’Europa stabilità e una generale prosperità . All’inizio, ci si chiedeva se avrebbe retto la parità con il dollaro: si è dimostrato più forte della valuta americana, stabilizzandosi su un cambio di 1,30-1,40. Quando, dopo il 2008, le cose si sono messe al brutto, è parso l’ombrello con cui ripararsi dalle intemperie della crisi mondiale: figurarsi dove saremmo, ci si diceva mentre esplodeva il dramma greco, senza l’euro. Solo negli ultimi mesi ci si è accorti che all’ombrello mancavano dei pezzi e che il manico era fin troppo fragile.
Agli italiani, le nuove banconote erano state presentate come una sorta di passaporto da cittadini europei, moderni e maturi. E lo sono state, a cominciare dalla vita quotidiana. Lo testimonia la piccola ebbrezza dei ragazzi che, sbarcando a Parigi o a Madrid, si trovano a comprare il biglietto della metropolitana con gli stessi spiccioli con cui l’avevano acquistato a Milano. La fine del rischio di cambio nella gran parte degli affari delle aziende. La facilità di spostare soldi e investimenti in giro per l’Europa. Non tutti l’hanno vissuta così, soprattutto chi, con l’estero, aveva poco a che fare. Nell’immaginario collettivo italiano, l’introduzione dell’euro coincide con una megatruffa generalizzata: doveva essere un euro uguale 1.936,25 lire, si trasformò in un euro uguale mille lire. La moneta unica, in realtà , non c’entrava: il problema fu la mancata tutela e vigilanza che il governo (Berlusconi) di allora, al contrario degli altri governi europei, non riuscì ad assicurare. Il risultato fu la percezione di un improvviso e ingiustificato aumento dei prezzi. Vero? Sì e no. I dati mostrano una brusca impennata dei prezzi più vicini alla gente: le mele, la carne, il caffè. Nel 2002, l’anno dell’euro, i prezzi degli alimentari salgono del 3,7%, quelli di bar e ristoranti del 4,5%. Ma una fiammata d’inflazione non ci fu: nel 2002, l’indice generale dei prezzi sale del 2,5%, meno che nel 2001 e nel 2003 (2,7% in ambedue i casi). Su un orizzonte più lungo, proprio l’inflazione è stata definita la maggiore vittoria dell’euro in Italia. Non tutto è merito della moneta unica: negli ultimi anni, nonostante gli strappi del petrolio, l’inflazione è stata bassa in tutto l’Occidente. Per l’Italia, comunque, si è trattato di una novità . Negli anni ‘70 e ‘80, i prezzi correvano in media di oltre il 13% l’anno. Negli anni ‘90, man mano che la prospettiva dell’euro si faceva concreta, sono scesi al 5%. Negli ultimi anni, si sono fermati al 2-3%.
L’altro grande assist fornito dall’euro all’economia italiana riguarda il protagonista in negativo di questi ultimi mesi: la finanza pubblica. Fino a poco tempo fa, il famigerato spread con i Bund tedeschi era qualcosa per cui dovevamo brindare. Fino metà degli anni ‘90, i tassi d’interesse sul debito pubblico italiano veleggiavano intorno al 4,5%. Con l’euro sono scesi – e sono rimasti fino al 2008 – intorno al 2%. Per un paese che ha quasi 2 mila miliardi di euro di debito pubblico, oltre due punti in meno di interessi sono roba grossa. Negli anni dell’euro, l’Italia ha, grosso modo, risparmiato 50-60 miliardi di euro ogni anno nel costo del debito. Anche grazie a questa leva, il debito pubblico era passato dal 120% del 1994 al 103% del 2008, prima che lo sfondamento dell’ultimo governo Berlusconi lo riportasse al 120%. Dove l’euro non sembra essere servito è nella crescita. L’ingresso nella moneta unica doveva, rompendo il circolo vizioso svalutazione della lira – inflazione – nuova svalutazione, spingere l’economia italiana verso nuove forme di sviluppo. Non è successo: per tutti il periodo dell’euro, i redditi italiani sono rimasti quasi fermi e lo sviluppo è stato asfittico. Il tradizionale volano delle esportazioni si è inceppato. Sotto questo profilo, il caso italiano è il più grave, ma non è unico. Si annida, probabilmente, qui, secondo molti economisti, il male profondo che, alla fine, ha eroso il decennio dell’euro. Contrariamente a quanto sostiene la retorica tedesca, infatti, quello che accomuna i Paesi deboli dell’euro (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda) non è l’indisciplina nel tenere a freno i conti pubblici. Quella riguarda Grecia e Italia, ma, in questa pagella, nel 2008 Spagna e Irlanda avevano i conti assai più in ordine della virtuosa Germania. Il filo comune è, invece, che, negli anni dell’euro, tutti questi Paesi hanno visto aggravarsi il deficit dei conti con l’estero. E’ qui la spaccatura dell’Europa: perchè, contemporaneamente, i Paesi forti, Germania in testa, miglioravano, invece, la loro bilancia dei pagamenti. In altre parole, al centro d’Europa si è aperto un divario di competitività : secondo le stime, ad esempio, il sistema dei prezzi e dei salari risulta, in Italia, più caro del 20-25% rispetto alla Germania. L’equilibrio è stato mantenuto perchè, a colmare il buco, hanno provveduto, fino al 2008, i capitali dei Paesi del Nord, che fluivano al Sud, a caccia di occasioni di investimento. Quando, con la crisi finanziaria, questo flusso si è interrotto, sono scoppiate le bolle immobiliari in Spagna e Irlanda e le crisi del debito pubblico in Grecia ed Italia.
Se questa interpretazione, ormai prevalente fra gli economisti anglosassoni, è corretta, le ricette che si stanno applicando per curare l’euro non sono quelle giuste: l’austerità per tutti predicata da Berlino cura i sintomi (e neanche tutti), ma non le cause. E i tempi sono irrealistici: è difficile pensare che l’Italia possa recuperare un deficit del 25% di competitività in 2-3 anni, a meno di una deflazione selvaggia e insopportabile. E, probabilmente, anche che risani, a colpi di tagli di spesa e rincari di tasse, la finanza pubblica, nel giro di mesi, anziché anni. Il capo economista dell’Fmi, Olivier Blanchard, ha avvertito in questi giorni che troppa austerità , troppo in fretta può essere controproducente: «I livelli di debito devono scendere, ma è una maratona, non uno sprint». Blanchard rivela che le stime preliminari compiute dagli uffici del Fondo monetario, indicano come gli effetti combinati dell’austerità fiscale e della conseguente minore crescita dell’economia possano facilmente portare, alla fine, ad un aumento, non ad una riduzione, degli spread sui titoli pubblici. Insomma, per salvare l’euro c’è il rischio di spararsi sui piedi e compromettere ulteriormente la moneta unica: l’impegno assunto, ad esempio, dal governo Berlusconi (e confermato da Monti) a pareggiare il bilancio entro il 2013 può rivelarsi un boomerang. Risanare i conti troppo in fretta, secondo Blanchard, può rendere il debito meno, anziché più sostenibile. E, con un messaggio evidentemente diretto a Berlino e all’agenda di risanamento abbozzata all’ultimo vertice europeo del 9 dicembre, il capo economista dell’Fmi chiarisce quale sia l’orizzonte di tempo realistico: «Ci vorranno – sostiene – più di due decenni per tornare a livelli prudenti di debito».
Quando i medici litigano al capezzale del paziente è un brutto segno. E il senso di dramma incombente è acuito dalla consapevolezza che le alternative alla sopravvivenza dell’euro sono peggiori dei sacrifici necessari per superare la crisi attuale. Per tutti, Paesi forti e deboli. Nelle scorse settimane, gli uffici studi di molte grandi banche si sono esercitati nell’immaginare gli scenari di un collasso dell’euro. Le ipotesi su cui questi scenari sono costruiti sono discutibili, approssimative, spesso azzardate. Ma i risultati sono univocamente impressionanti. Secondo una grande banca giapponese, Nomura, in caso di fine della moneta unica, nell’arco di cinque anni, il nuovo marco tedesco risulterebbe solo marginalmente rivalutato, rispetto al dollaro. Ma tutte le altre monete nazionali si svaluterebbero pesantemente rispetto all’euro attuale: fra il 7 e il 10% il fiorino olandese e il franco francese. Fra il 30 e il 50% per peseta spagnola, scudo portoghese, sterlina irlandese. Quasi il 60% per la dracma. La nuova lira risulterebbe svalutata di oltre il 27% rispetto alla quotazione attuale dell’euro sul dollaro. Sulla base dell’esperienza delle crisi valutarie del passato, la Nomura calcola che queste svalutazioni si accompagnerebbero, quasi certamente, a tassi di inflazione annua, mediamente, superiori (spesso di molto) al 10%.
Con quali effetti sulle singole economie? Secondo un’altra grande banca, la olandese Ing, in caso di collasso dell’euro, l’economia italiana accuserebbe, da qui al 2016, una perdita secca complessiva di oltre il 6% del Pil, al netto dell’inflazione. Ma anche Francia e Olanda si contrarrebbero di più del 5% e la stessa Germania vedrebbe il suo prodotto interno lordo ridursi di quasi il 4%. Se queste previsioni vi fanno venire i brividi, considerate che sono selvaggiamente ottimistiche rispetto a quanto prevede invece un’altra banca mondiale, la svizzera Ubs. Gli gnomi di Zurigo si concentrano sull’impatto immediato non del collasso generale dell’euro, ma dell’uscita di un singolo paese dalla moneta unica. La simulazione è agghiacciante. Per un Paese come l’Italia, secondo l’Ubs, trovarsi fuori dall’euro significherebbe vedere il Pil quasi dimezzarsi nei primi 12 mesi. Ad ogni italiano costerebbe fra 9.500 e 11.500 euro a testa, a cui si aggiungerebbero, per ogni anno successivo, altri 3-4.000 euro. Ma anche la Germania dovrebbe pensarci bene, prima di lasciare la moneta unica. Le costerebbe un crollo del 25% del prodotto interno lordo: fra 6 mila e 8 mila euro a testa, per ogni tedesco, più 3.500 – 4.500 euro, per ogni anno successivo.
In realtà , nessuno è oggi in grado di formulare una previsione attendibile degli effetti di una crisi terminale dell’euro. Troppo complesso il quadro: ad esempio, un collasso della moneta unica amplificherebbe, probabilmente, i suoi effetti immediati, perchè scatenerebbe una nuova crisi finanziaria mondiale. Ma le simulazione servono ad illustrare la posta in gioco. Di fatto, dopo dieci anni, siamo tutti, in qualche modo, prigionieri dell’euro. O, se preferite, l’euro è ormai la nostra casa, degli italiani come dei tedeschi e, fuori, c’è freddo e buio. La crisi del decimo anno segna, però, una svolta profonda. Anche se l’euro sopravviverà , niente sarà più come prima. I prossimi dieci anni della moneta unica saranno, comunque, molto diversi dai primi dieci.
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