Gli spazi in movimento di un continente in crisi

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Leggere i libri di Karl Schlà¶gel può provocare una sorta di vertigine, tanti sono i riferimenti giustapposti con un raffinato gioco di montaggio e collage e le suggestioni teoriche avanzate. La forma del saggio incentrato su luoghi apparentemente secondari ma che rappresentano le «capitali reali» della nuova Europa (contrapposte a quelle immaginarie dei riti del potere) permette all’autore di disegnare un’Europa più ricca e multidimensionale di come viene rappresentata dai mezzi di comunicazione, giocoforza costretti a ricondurre la complessità  dell’odierna società  europea ad abusati canovacci nazionali.
Lo storico tedesco, maestro nel leggere la grande storia attraverso i suoi simboli più minuti e banali, si presenta ora al lettore italiano con Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città , da poco uscito per Bruno Mondadori (pp. 303, euro 24), la cui ultima frase ne racchiude un po’ il senso: «liberarne la ricchezza e la bellezza dalle false grandi narrazioni del XX secolo, rievocarle e reinserirle nella nuova Europa è un’opera meravigliosa e affascinante». Il soggetto esplicito della frase sono le province di frontiera sulle quali si è particolarmente accanita la storia del Novecento, ma quello implicito comprende tutti i luoghi che ne hanno fatto la storia. Il volume si inserisce dunque in quella corrente che manifesta un interesse teorico sempre maggiore per la geografia che, in un momento di crisi delle ricostruzioni storiche, sembra offrire se non altro una mappa provvisoria, quantomeno fisica, attraverso la quale fissare delle coordinate parziali (dello stesso autore nel 2009 era uscito in italiano anche il più teorico Leggere il tempo nello spazio che preannunciava molti temi di questa nuova raccolta di saggi). Del resto per dirla con Schlà¶gel «la storia si svolge in un luogo, non in uno spazio vuoto».
Archeologia del XX secolo
E se i tanti luoghi citati rappresenterebbero poco più di puntini isolati su una cartina muta dell’Europa centro-orientale, è grazie alle effervescenti pennellate dell’autore che ne riemergono il passato e il presente. La storia d’Europa qui raccontata non è vista attraverso congressi, tavoli tecnici, commissioni, ma dal basso, nel suo farsi quotidiano, attraverso nuovi protagonisti e nuovi punti nodali: i mercanti di auto del gigantesco mercato di Marijampole, i camionisti che trasportano le merci oltre frontiere fino a vent’anni fa impenetrabili, i turisti per shopping che vagano da una metropoli all’altra, gli autori delle guide turistiche che rendono trasparenti città  un tempo inaccessibili. E nuovi sono ovviamente anche gli strumenti su cui si concentra l’analisi: gli orari delle Eurolines che collegano ormai tutte le città  del continente, le serie turistiche The City in your pocket o i vocabolari multilingui per i camionisti, senza dimenticare ovviamente i vecchi indirizzari e le antiche planimetrie.
L’Europa studiata da Schlà¶gel ricorda un reperto archeologico, così come del resto tutto il XX secolo, lontano ormai anni luce, perché il presente sembra aver accelerato al punto da lasciarsi definitivamente alle spalle il suo ingombrante passato. Il Novecento (e il comunismo in particolare) ha lavorato in modo sistematico alla rottura dei mille «ponti», soprattutto culturali, che tenevano unita l’antica Europa, concentrandosi soprattutto sulle città , che rappresentavano la culla di quelle peculiari «culture polifoniche» distrutte poi nel corso del secolo scorso e che solo ora tornano al loro ruolo di punti di intersezione di mondi diversi (Cernivci) o di innovazione architettonica (Nizhnij Novgorod). Il crollo improvviso dei tanti muri alzati dalla guerra fredda ha permesso la costruzione di nuovi ponti tra luoghi resi allora artificialmente omogenei e impermeabili, attraverso lo stabilimento di vie di comunicazioni regolari, l’unificazione anche estetica della vita quotidiana (a partire dalle linee riconoscibili dell’Ikea), la stereotipizzazione delle vacanze al mare, la condivisione di una lingua franca ormai diffusa ovunque in forma semplificata ma funzionante (l’inglese), e in ultima analisi attraverso l’avvio di quella «grande migrazione» che sta trasformando l’Europa in un «continente di pendolari e migranti».
Le vittime principali della guerra fredda all’est erano state le città , devastate soprattutto quando le stratificazioni temporali precedenti erano ideologicamente sospette, legate come nel caso dello Jugendstil di Oradea all’ascesa della borghesia ottocentesca poi messa al bando dal monumentalismo socialista o, come nel caso del «moderno bianco» del Bauhaus di Brno, alle rivalità  all’interno di complesse società  urbane multinazionali, poi semplificate e ripulite etnicamente al termine della Seconda guerra mondiale. Altre città , come Bucarest, hanno invece vissuto una distruzione urbana totale, ritornando a brillare soltanto dopo il 1989, al termine di un quarantennio di isolamento dal resto dell’Europa. Anche San Pietroburgo, in vari modi ancora legata al famigerato Belomorkanal costruito quasi integralmente da condannati ai lavori forzati (parte integrante di ciò che verrà  chiamato «arcipelago Gulag»), abbandona oggi le caratteristiche di città  dell’est, tornando al suo ruolo di metropoli del nord. Berlino rappresenta invece il massimo esempio di quella trasformazione radicale delle distanze che, dopo il 1989, ha riportato la città  al centro della rete delle metropoli europee. Grazie anche al «ripristino di una prospettiva preesistente», la capitale della Germania è tornata, dopo i grandi deragliamenti del XX secolo, a riallacciare i suoi legami naturali, riportando in vita non solo la propria continuità  storica ma anche la società  civile.
Per Schlà¶gel ogni città  è anche un «testo» da leggere e analizzare. E se il volto di una città  è stato deturpato dalle guerre novecentesche, anche quelle rimaste intatte dal punto di vista architettonico hanno patito la distruzione delle mappe mentali dei propri abitanti. In molti casi sembra un «miracolo» che siano state capaci di cancellare i decenni di quel tremendo finis Europae per rientrare nella storia. La mappa dell’Europa può essere così ridisegnata come una rete di città  collegate, spesso più vicine tra loro che alla provincia che le circonda. Lo spazio del cittadino europeo infatti si muove nei metropolitan corridors che le uniscono più che all’interno dei vecchi stati nazionali. In certi casi (Mosca in primo luogo) può addirittura succedere che in questa «zona dell’accelerazione» convivano due mondi e due epoche diverse: «è come se un intero paese perdesse contatto con la capitale che si allontana a tutta velocità ». 
A est dell’Elba
Gli ultimi testi del libro, dedicati ai rapporti del mondo tedesco con l’est, segnalano un importante cambiamento di prospettiva avvenuto di recente. Dopo anni di furibonde polemiche politiche è infatti possibile riaffrontare all’interno dello studio dei processi migratori di lunga durata un tema controverso – ma tuttora poco visibile nel percorso che dovrebbe portare alla nascita della futura Europa – come quello del «complesso tedesco» nei confronti dell’est. Anche l’espulsione dei cittadini di nazionalità  tedesca al termine della guerra diventa così un fenomeno che può essere ripensato senza cadere nello sciovinismo. Il «secolo dei profughi» è stato infatti riconosciuto per tale solo nel momento in cui, all’epoca delle guerre in Jugoslavia, è stato avvertito l’orrore delle pulizie etniche, quando le immagini dell’Olocausto, e quindi della «colpa collettiva» dei tedeschi, appartenevano alla storia.
Oggi l’immagine del nostro continente non gode grande salute. Schlà¶gel invece, forse anche per il punto privilegiato di osservazione (è professore a Francoforte sull’Oder al confine con la Polonia), intravede l’ascesa di un’altra Europa, lontana dai palazzi del potere. Forse anche perché Arcipelago Europa, uscito a Monaco nel 2005, raccoglie testi che risalgono per lo più agli anni 2002-2004, scritti quindi negli anni euforici successivi all’introduzione dell’euro. Anche per questo è importante che venga pubblicato in un momento di così forti dubbi sulla tenuta economica di quell’Europa aperta e complessa tanto cara all’autore.


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