Gli indignados del clima

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Sono gli indignados del clima, i pescatori che si ritrovano con le reti vuote, i ragazzi che si arrampicano sui tetti delle loro case quando le onde invadono il villaggio, le donne che non trovano più acqua per cucinare. Nelle loro isole fanno il possibile per difendersi dalla marea montante dell’oceano: costruiscono seawalls, barriere improvvisate con scheletri di macchine, rottami, pietre. Ma sono palliativi, misure tampone che devono essere ricostruite anno dopo anno, arretrando ogni volta sotto la spinta sempre più minacciosa del mare. E allora hanno deciso di andare a Durban, alla conferenza Onu in cui i grandi inquinatori vogliono rinviare l’impegno a difesa dell’atmosfera, e minacciano di bloccare i lavori.
Non hanno nulla da perdere perché il caos climatico si sta portando via tutto. Le terre vengono erose dalla crescita dei mari. Le sorgenti di acqua dolce sono inquinate dalla risalita del cuneo salino. I coralli sbiancano e muoiono. Le case vengono abbandonate perché gli uragani e le tempeste tropicali le spazzano via. Per gli abitanti dei 40 Stati raccolti nel cartello Aosis (Alliance of Small Islands) la bancarotta climatica è dietro l’angolo: non rischiano soltanto lo stipendio, in gioco ci sono la terra in cui sono nati e la sopravvivenza fisica.
Abdullahi Majeed, un meteorologo che studia l’impatto del cambiamento climatico degli Stati a fior d’acqua, quelli che rischiano di sparire dalla carta geografica, racconta come la vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone sia già  cambiata: abitudini consolidate nei secoli e paesaggi che sembravano immutabili sono stati messi in crisi in pochi anni. La barriera delle mangrovie è stata mangiata dalle onde, l’acqua è diventata scarsa, i villaggi vengono periodicamente inondati.
Le prime isole hanno cominciato ad arrendersi. Alle Carteret, vicino a Papua Nuova Guinea, dopo anni di battaglia contro le onde sempre più alte che hanno finito per inghiottire palmizi e case, 2 mila persone hanno deciso di abbandonare la loro terra andando ad allungare l’elenco degli ecoprofughi.
Anche a Tuvalu, un minuscolo arcipelago della Polinesia, il processo di cancellazione dello Stato è già  iniziato. La king tide, una super marea che si crea all’inizio dell’anno e che sta estendendo il suo periodo di azione, inonda i villaggi e sommerge le spiagge di sabbia bianca. Il mare continua a salire a una velocità  che ha già  raggiunto i 6 millimetri l’anno. Gli uragani diventano sempre più frequenti. Le barriere coralline sono sbiancate e l’economia locale, che dipende dal turismo e dalla pesca, è in ginocchio. Un dramma che coinvolge tutti: 10 mila degli 11 mila abitanti vivono a un’altezza inferiore ai 2 metri sul livello del mare e se anche volessero spostarsi non avrebbero molta scelta perché nessun punto delle isole e degli atolli supera i 4,5 metri.
«La sopravvivenza del nostro popolo è appesa a un filo: non assumetevi la responsabilità  di tagliarlo», aveva detto Ieiemia Apisai, ex premier di Tuvalu, due anni fa, al vertice di Copenaghen sul clima. Aggiungendo che le emissioni serra sono come le bombe d’alta quota: il pilota si limita a pigiare un bottone senza vedere le conseguenze di ciò che avviene lontano da lui, ma le conseguenze sono devastanti.
Al summit in Danimarca quell’appello cadde nel vuoto. Ma ora, alla conferenza Onu sul clima che si è aperta a Durban, con Washington e Pechino pronte a gettare la spugna della battaglia per la stabilizzazione dell’atmosfera, il gruppo degli indignados potrebbe rivelarsi la vera sorpresa, l’elemento dirompente in grado di spezzare il meccanismo del disimpegno programmato che da lunedì scorso sembra tenere in ostaggio i 15 mila delegati di 180 paesi. Di fronte a una resa già  scritta, la rabbia dei paesi che rischiano di scomparire, inghiottiti dal mare, può diventare difficile da sostenere. E la Cina, leader storico dei paesi in via di sviluppo, potrebbe trovarsi all’improvviso in un ruolo scomodo, quello del maggior inquinatore mondiale al centro delle critiche dei suoi ex alleati, oltre che degli europei che difendono il protocollo di Kyoto e le misure contro i gas serra.
«Le emissioni serra continuano a crescere a ritmi record, si è appena chiuso il decennio più caldo della storia e ci troviamo di fronte al tentativo dei paesi responsabili della maggior parte dell’inquinamento di rinviare gli atti concreti che servono a difendere i nostri paesi», accusa a nome dell’Aosis, Dessima Williams, il rappresentante di Grenada. «Rimandare l’accordo sulla riduzione delle emissioni serra al 2017 significherebbe rinunciare a ogni speranza di mantenere la crescita della temperatura entro i 2 gradi, il livello oltre il quale lo scenario diventa catastrofico».
La conferma viene dalle Kiribati: in questo arcipelago tra le Hawaii e Tahiti l’esodo è già  cominciato. Le prime migliaia di abitanti hanno chiesto ai governi dell’Australia e della Nuova Zelanda di potersi trasferire perché la loro case non sono più abitabili e la loro terra sta sparendo. Per motivare la domanda hanno fatto ricorso a una definizione che nel linguaggio dei trattati internazionali non esiste perché la situazione non ha precedenti: «rifugiato climatico». E il governo della Nuova Zelanda ha accettato di costituire un programma per governare l’arrivo dei profughi climatici.
Un arrivo che rischia di trasformarsi in valanga se nel conto si mettono anche gli abitanti dei paesi costieri che rischiano di perdere buona parte delle loro pianure fertili. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati stima che entro il 2050 si arriverà  a 200 – 250 milioni di rifugiati ambientali: a pagare il costo maggiore del disastro climatico sono i paesi che hanno la responsabilità  minore perché sono quelli che, essendo arrivati per ultimi all’industrializzazione, hanno consumato meno combustibili fossili, i principali colpevoli per l’aumento dell’effetto serra. Secondo l’Onu dei 262 milioni di persone colpite da disastri climatici tra il 2000 e il 2004 ben il 98 per cento viveva in un paese in via di sviluppo.
Le stime sull’accelerazione del caos climatico hanno ancora un margine di incertezza, ma per gli abitanti delle piccole isole lo scenario della crescita dei mari, che secondo Lester Brown, il presidente dell’Earth Policy Insitute, potrebbe arrivare a sfiorare i 2 metri entro il secolo, non è un esercizio accademico. Per protestare contro il boicottaggio delle misure anti gas serra alle Maldive è stata tenuta una riunione del governo sott’acqua: 14 ministri con la muta e le bombole d’ossigeno si sono riuniti a una profondità  di tre metri per simulare il futuro in assenza di azioni correttive.
Quella degli indignados del clima potrebbe sembrare una battaglia persa, con i primi atolli che vengono abbandonati mentre i più ricchi sono difesi portando tonnellate di sabbia prelevate da quelli abbandonati al loro destino. E qualcuno già  programma la costruzione di isole artificiali galleggianti per ospitare i profughi ambientali.
Ma molti non si arrendono. A Durban il cartello delle isole che sono ancora il paradiso delle vacanze è deciso a dare battaglia per difendere la speranza. «Basandoci su quanto affermano climatologi del peso di James Hansen noi crediamo che l’aumento della temperatura debba essere mantenuto entro 1,5 gradi, il doppio della crescita che si è registrata nel ventesimo secolo», spiega Phillip Henry Muller, che rappresenta le isole Marshall. «Serve un accordo che impegni tutti i paesi a ridurre le emissioni serra prodotte bruciando petrolio e carbone e deforestando perché non è giusto che paesi come i nostri, che hanno dato un contributo trascurabile all’inquinamento, paghino il prezzo maggiore».
E’ improbabile che a Durban la spinta degli indignados possa arrivare a sovvertire i pronostici fino al punto di arrivare a un trattato vincolante immediato. Ma si potrebbe delineare un periodo ponte in cui prolungare gli impegni esistenti per arrivare poi a definire un accordo più ampio nell’arco di pochi anni. Un patto che verrebbe agevolato da un fondo di 100 miliardi di dollari l’anno per gli aiuti allo sviluppo sostenibile.


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