Fuggi fuggi persino da Kyoto
Sono passate solo poche ore dalla fine del deludente vertice sul clima di Durban e il governo del Canada si è già affrettato a dichiarare la sua uscita formale dal Protocollo di Kyoto, che lo vincolerebbe a una riduzione delle emissioni nazionali anche nei prossimi anni. Il tutto pur in assenza di impegni analoghi da parte di altri importanti paesi del pianeta, eccezion fatta per l’Unione europea.
Australia, Russia e Giappone hanno affermato anch’essi di volersi tirare fuori. Come ammesso dal governo di Ottawa, le implicazioni legali di un atto del genere per il momento non sono chiare. Viene spontaneo chiedersi, allora, perché ci sia questa fuga dai vincoli, per altro blandi, di Kyoto, proprio quando la Commissione e i paesi europei hanno annunciato come una vittoria il fatto che il Protocollo sarà in vigore almeno fino al 2017. Di fatto solo gli Stati dell’Ue e pochi altri sotto l’orbita europea attueranno politiche di riduzioni vincolanti delle emissioni (sulla carta), in attesa che si raggiunga un accordo globale dopo altri quattro anni di negoziati e sia quindi messo in pratica a nove anni da oggi.
L’incertezza del futuro
Per comprendere il fallimento di Durban è necessario porlo nel contesto delle nuove relazioni geopolitiche ed energetiche sorte negli ultimi anni e dell’attuale crisi economica e finanziaria. Di fronte all’incertezza del futuro e una sempre più aspra competizione globale, sia Cina che Stati Uniti non vogliono vincoli. L’una concentrata su una lenta rifocalizzazione sulla crescita interna della sua economia, cercando di bilanciare varie esigenze, inclusa quella ambientale, in modo controverso. Gli altri alle prese con un lento declino economico, ma ancora protetti dalla supremazia del dollaro che consente indebitamento dello Stato e supremazia su alcuni mercati globali.
Insomma, in materia di clima vince il principio “cinese” della non-interferenza. Va aggiunto che la Cina, che da sempre ha proibito al G20 di negoziare questioni climatiche, ha giocato di contro la sua partita negoziale nel processo delle Nazioni Unite, chiedendo e ottenendo che sugli europei rimanga il vincolo di Kyoto, in attesa di un possibile nuovo regime internazionale. Gli altri paesi emergenti – Brasile, India, Sudafrica – pretendono da quelli ricchi impegni vincolanti di riduzione in nome del debito climatico accumulato. Tutti gli altri stati, tra cui quelli africani che saranno tra i più impattati dai cambiamenti climatici, vogliono azioni subito. Purtroppo, però, contano pochissimo.
L’importanza del carbone
Intanto la competizione per accaparrarsi risorse energetiche è sempre più feroce, specialmente dopo la frenata sul nucleare. Le compagnie petrolifere necessitano di iniziare a utilizzare combustibili non convenzionali, quali le sabbie bituminose, che produrranno ancora più emissioni. Questo il caso del Canada. Ma si pensi anche al gas di scisto di cui la stessa Europa e gli Usa sono ricchi. Lo sfruttamento di tali risorse sarebbe impossibile con vincoli alle emissioni. Senza parlare dell’importanza ancora data al carbone, in una chiave di diversificazione degli approvvigionamenti. Sul fronte delle rinnovabili, con i loro impatti ambientali e sociali devastanti nel Sud del mondo tornano di moda le grandi dighe, mega opere strategiche che condizionano interi bacini fluviali, mentre l’eolico e il solare iniziano ad essere dominati da un numero limitato di paesi e imprese produttori.
Ma il vero macigno sui negoziati sul clima è la crisi economica e finanziaria. La richiesta del Sud del mondo di mettere sul tavolo una mole ingente di fondi per pagare le misure di mitigazione e adattamento climatici è stata e continuerà ad essere snobbata dai paesi “ricchi”, che oggi hanno vincoli di bilancio sempre più pesanti e problemi di crescita imposti dall’ortodossia liberista. La risposta allora è quella di coinvolgere il settore privato finanziario, le banche e altri fondi speculativi.
L’Unione europea ha giocato le sue carte imponendo con il Protocollo di Kyoto la creazione di mercati del carbonio, che hanno già dimostrato di essere altamente speculativi e non in grado di funzionare. In balia delle lobby finanziarie, l’Ue ha sposato questa strada, che in tanti, anche in Usa, guardano con sospetto, di fatto trovando il sistema per rimandare una vera riduzione delle emissioni. Accordo globale o no, gli europei e le piazze finanziarie cercheranno lo stesso di sviluppare queste immense opportunità di business finanziario nei paesi emergenti e del Sud, anche per quanto riguarda le foreste. La creazione della commodity carbonio è stato il primo esperimento per la finanziarizzazione di “nuove” risorse naturali e della green economy. Quello che serve a Wall Street e alla City di Londra per creare nuovi asset finanziari, oggi sempre più scarsi, su cui continuare a crescere.
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APPELLO «Cittadini, protestate con Ottawa»
Protestano Cina e Francia, ma c’è anche un appello di cittadini e associazioni
«a scrivere all’Ambasciata del Canada per esprimere dissenso sull’uscita del paese nord americano dal Protocollo di Kyoto». Lo rivolge il Kyoto Club dal suo sito sottolineando che «fino al 2017 il Protocollo sarà l’unico strumento per contenere le emissioni di gas serra mondiali. La defezione canadese indebolirebbe lo sforzo, insufficiente, per evitare impatti pesanti del global warming». E si rivolge al Governo canadese, tramite la sua Ambasciata in Italia, perché ci ripensi: «Il Canada dia ascolto alla faccia verde della sua economia, anzichè alle industrie legate alla lavorazione delle sabbie responsabili del 5% delle emissioni climalteranti canadesi, i cui interessi sono incompatibili con quelli del pianeta».
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