Fuga in Germania dei bocciati dalla crisi

by Editore | 28 Dicembre 2011 8:47

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BERLINO — Fino a oggi l’emigrante greca più famosa in Germania era la cantante Vicky Léandros, venuta qui da Paleokastritsa, nell’isola di Corfù, e protagonista di una lunga carriera che l’ha portata a collaborare tanto con direttori d’orchestra come Herbert von Karajan quanto con la technoband degli Scooter. Un altro greco, meno noto, era una delle nove vittime della cellula neonazista che si è macchiata, nella colpevole indifferenza delle forze dell’ordine, di una serie di terribili delitti contro cittadini stranieri, soprattutto turchi, passati alla storia come gli «omicidi del kebab». Ma sentire parlare la lingua di Kostas Charitos, il commissario creato dalla penna dello scrittore Petros Mà¡rkaris, sarà  sempre meno strano, in Germania, se è vero che nel primo semestre del 2011 l’immigrazione dalla Grecia è aumentata dall’84 per cento.
Una vera e propria fuga dalla crisi, verso un Paese che è stato certamente critico nei confronti delle politiche economiche decise ad Atene e che ha definito i greci dei pericolosi spendaccioni, ma dove la disoccupazione si attesta solo sul 6,5 per cento e dove non mancano le opportunità  di un rapido inserimento nel mercato nel lavoro. La Germania, insomma, attira gli stranieri, soprattutto quegli europei che vivono situazioni di disagio o che rischiano di pagare le conseguenze di scelte disastrose dei loro governi. Lo dimostra anche il fatto che l’immigrazione da un altro membro del club europeo che si trova in cattive acque, la Spagna (e che rischia di non uscirne tanto presto, guidata da un governo che ha abolito il ministero della Cultura) è cresciuta nello stesso periodo del 49 per cento. Tra l’altro, nel pacchetto di misure economiche e fiscali annunciato qualche settimana fa dal governo guidato da Angela Merkel (che comprendeva una limitata riduzione delle imposte) sono contenuti anche provvedimenti per incentivare l’arrivo dall’estero di personale qualificato.
Il caso greco-spagnolo, che fa notizia proprio per il ruolo che questi due Paesi hanno svolto nella crisi dell’euro, è comunque uno degli aspetti di un fenomeno più ampio che non va trascurato. La Germania è ormai un Paese solidamente multietnico, in cui vivono 2,7 milioni di turchi e che ha fatto passi da gigante nella difficile strada dell’integrazione. A ricordarcelo non ci sono solo le star della Nazionale di calcio, dal turco Mesut à–zil al tunisino Sami Kedhira. Nel governo federale (si pensi al ministro dell’Economia Philipp Rà¶sler, liberale, nato in Vietnam e adottato da una coppia tedesca), nel gruppo dirigente dei partiti (il co-presidente dei Verdi, Cem à–zdemir, è figlio di una famiglia turca), nell’amministrazione dei Là¤nder (a Berlino il sindaco Klaus Wowereit ha affidato la responsabilità  di Lavoro, Integrazione e Politiche per le donne a Dilek Kolat, nata in Turchia) i tedeschi «con radici straniere», come si dice qui, si sono fatti largo arrivando a posizioni di vertice. Certo, questo non vuol dire che la situazione vada dipinta in termini esclusivamente positivi. Non sono un caso, per esempio, le parole preoccupate, e spesso lontane nei toni e nei contenuti, pronunciate dalla Merkel e dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan in novembre per il cinquantesimo anniversario dell’accordo bilaterale che aprì la strada all’arrivo della prima grande ondata di lavoratori turchi in Germania.
Ma nelle valutazioni di questo grande nodo epocale che è il problema dell’immigrazione nei Paesi «ricchi», quello che conta sono anche le differenze. Per esempio, secondo un sondaggio della Fondazione Genshagen e dell’Institut Montaigne, citato anche da Le Monde, anche se il 43 per cento degli interpellati in Germania e Francia ha un’opinione negativa sull’integrazione degli immigrati nei rispettivi Paesi, ben il 42 per cento dei tedeschi esprime invece su questo tema un giudizio positivo. I «favorevoli» francesi sono solo il 4 per cento.
Sono numeri, questi, che vanno valutati con attenzione. La vera posta in gioco (e il compito della politica) consiste nell’evitare che in quel 43 per cento di persone convinte che l’integrazione non abbia dato risultati positivi crescano atteggiamenti aggressivi o radicalismi legati al sentimento di esclusione. Una voce molto pessimista, in questo quadro, è quella del direttore dell’Istituto di ricerca sul conflitto e la violenza dell’Università  di Bielefeld, Wilhelm Heitmeyer, che denuncia la crescente ostilità  contro gli stranieri in una parte della società  tedesca. Il discorso di Heitmeyer si lega al problema della presenza sempre più attiva, soprattutto nelle zone più povere del Paese, dei gruppi neonazisti. Una minaccia, questa, che lo stesso presidente Christian Wulff, nel discorso televisivo di Natale, ha voluto ricordare, ammonendo che in Germania non c’è posto per «xenofobia, violenza, ed estremismo politico».

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