Europa. Quella identità  condivisa che manca all’Unione

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L’Europa non è una comunità  di senso. Non abbiamo una lingua, un’identità , una memoria storica condivisa. In parole povere, non siamo una nazione. Per unirci in uno Stato europeo dovremmo inventarne una, oppure costruire un impero. Nessuno ha ancora provato a produrre una nazione europea. Molti nel passato hanno tentato di allestire un impero continentale, con la propria nazione al centro e i restanti popoli in subordine (Napoleone), se non schiavizzati (Hitler). Fallendo.
Da oltre mezzo secolo siamo impegnati in un processo a tempo indeterminato e geografia imprecisata noto come “integrazione europea”. Impresa apparentemente dedicata a superare gli Stati nazionali democratici senza peraltro determinare con quali istituzioni – e quanto democratiche – sostituirli. Un work in progress. Scaduto a work in regression almeno da quando (1973) abbiamo integrato nello spazio comunitario una nazione vocazionalmente antieuropea – la Gran Bretagna – e inventato vent’anni dopo a Maastricht la prima moneta senza sovrano della storia universale. Una divisa che oggi circola in 17 dei 27 paesi comunitari (su 51 Stati convenzionalmente battezzati europei). Non proprio “moneta unica”. Meno ancora il propulsore di quello Stato europeo che secondo alcuni dei suoi coraggiosi fondatori ne sarebbe inevitabilmente scaturito. Una moneta orfana, adottata da diciassette vicegenitori che si studiano in cagnesco, stenta a suscitare fiducia, figuriamoci entusiasmo politico.
Anche per causa dell’euro, l’Europa non affascina più. Al contrario, rischia di diventare il capro espiatorio delle nostre angosce. Una cupa eurofobia si insinua fra europei di ogni latitudine. Su di essa speculano imprenditori politici dalle dubbie credenziali democratiche. Mentre riaffiorano ipernazionalismi e particolarismi etnici, non solo nell’Europa “allargata” (l’Ungheria è il caso limite), dilagano le teorie del complotto e si riesumano i Protocolli di Sion in versioni non troppo aggiornate. Se fino a qualche tempo fa gli avventurieri xenofobi se la prendevano anzitutto con il “pericolo islamico”, oggi il facile bersaglio di Le Pen figlia, Wilders, Bossi e affini è “Bruxelles”, il Moloch cui i nostri politici chiamano a sacrificare in nome dell’euro. Dieci anni fa, per molto meno l’Austria di Haider fu messa alla gogna dall’indignazione comunitaria. Oggi l’Ungheria di Orbà¡n può permettersi assai di più, quanto a scelte liberticide e istinti neoirredentistici. Nell’indifferenza quasi generale.
L’eurocrisi non è puramente economico-politica. La sua radice è cultural-identitaria: manca il senso condiviso su cui qualsiasi politica deve poggiare. Gli europei tendono a non comunicare, anche quando pensano di farlo. Si rinfacciano reciprocamente stereotipi negativi come fossero verità  di fatto. Quei cliché che nel bel tempo reprimiamo nei retrobottega dell’anima e nella tempesta deflagrano dentro e fuori di noi con inattesa potenza.
Al deficit di comunicazione, dunque al pathos delle intolleranze, contribuisce l’eurolingua comunitaria: il gergo corrente fra i funzionari di Bruxelles. I quali, per difendere la «ragion di Stato di uno Stato che non esiste» (Enzensberger), devono essere ben certi di non farsi capire dai comuni europei. Senza un filo di ironia. Di qui il parlare per acronimi (Eac, Rtd, Entr, Taxud, Elarg, Hr eccetera per restare alle Direzioni generali, pardon: Dg) per lemmi intraducibili (acquis communautaire, governance, trilogue, eccetera) scritti o pronunciati da dirigenti comunitari non eletti ma selezionati dai leader nazionali per allocare ex colleghi disoccupati (Barroso, van Rompuy) o fra le terze file delle classi politiche domestiche (Ashton).
L’europeisticamente corretto danneggia l’Ue e ne esalta i nemici. Giacché ha eretto l’Europa a tabù, umiliandola a sinonimo di Unione Europea. Così manipolata, “Europa” è orwellianamente scaduta a parola utile a bloccare ogni ragionamento critico su se stessa. Mentre “euroscettico” – colui che dubita del tabù Europa, avrebbero tradotto gli illuministi – è anatema per gli euroteologi. Un rattrapprimento semantico cui forse non si sarebbero piegati, se oggi rivivessero, gli storici e i filosofi che della civiltà  europea vollero abbozzare un’interpretazione valoriale, da Voltaire a Diderot, da Robertson a Hume.
L’assenza di senso dell’Unione Europea ne riflette la carenza di identità . Mai nella storia i popoli lettone e cipriota, maltese e slovacco, italiano ed estone, britannico e austriaco – per tacere di francesi e tedeschi – hanno convissuto sotto uno stesso tetto, a condividere pane quotidiano, pensieri e sentimenti profondi. Certo, l’identità  è sempre plurale. Siamo tutti parenti a questo mondo, dopo Adamo ed Eva. Resiste in molti di noi, malgrado tutto, un sentimento di “europeità “, peraltro assai cangiante e avvertito soprattutto quando non siamo in Europa. Ma di qui a farne il sostrato di una entità  politica c’è un abisso.
Forse un giorno nascerà  una comunità  di senso europea, in spazi diversi e più ristretti dell’Ue. Purché oggi, e non domani, noi europei, italiani in testa, stabiliamo che sul carattere liberale e democratico delle nostre istituzioni, quali ne siano i confini, non si transige. Il paradosso dell’euroteologia è che da decenni sta metodicamente segando, con il ramo degli Stati nazionali, anche quei valori occidentali che danno loro linfa e senso. E che oggi non possono essere incardinati in uno Stato europeo, se non con la forza o con l’inganno. I padri fondatori spiegavano di lavorare per gli europei, non con loro. Da buoni istitutori. Nel frattempo siamo un po’ cresciuti e, speriamo, abilitati a dubitare. A scegliere. Democrazia prima, Europa poi.


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