Londra, l’antieuropea

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Che cosa hanno in comune 150 mila italiani, 200 mila francesi, 250 mila tedeschi, 100 mila spagnoli, 80 mila portoghesi, 70 mila greci, oltre a svariate decine di migliaia di belgi, olandesi, irlandesi, scandinavi, baltici e slavi del centro-sud? Il fatto di vivere tutti, e sentirsi tutti a casa propria, nella medesima città : Londra, che ufficialmente è la capitale della Gran Bretagna ma in realtà  rappresenta da anni per l’Europa ciò che New York è sempre stata per l’America, la città  più globale, aperta e dinamica dell’intero continente che sorge alle sue spalle. 
Sennonché, la metropoli che si appresta ad ospitare le Olimpiadi dell’estate prossima come vetrina della multietnicità , da qualche giorno sporge il labbro in fuori con altezzoso disprezzo, esalta il ritrovato “spirito del bulldog” che le fece vincere (con un aiutino dagli yankee) la Seconda guerra mondiale e rievoca perfino lo “splendido isolamento” in cui si pavoneggiava all’epoca del British Empire. L’ondata di nazionalismo anti-europeo scatenata da David Cameron, con il suo veto all’accordo salva-euro tra gli altri 26 paesi della Ue, sarebbe comica se non fosse che non c’è niente da ridere nel “divorzio” (definizione dell’Economist) fra Londra e l’Europa. «Ho detto di no alla Merkel e a Sarkozy», spiega il primo ministro in parlamento, «per difendere gli interessi della City», la cittadella finanziaria londinese, polmone dell’economia nazionale: eppure a ogni angolo della City c’è una banca europea e metà  dei banchieri, dei broker, degli avvocati che vi lavorano, parlano come prima lingua il tedesco o il francese, l’italiano o lo spagnolo. Sono gli stessi che da due decenni fanno crescere vertiginosamente (+34 per cento nel 2011, alla faccia della crisi) il prezzo delle case di Chelsea, il ghetto dorato sulle rive del Tamigi dove preferiscono abitare, così contribuendo a un’altra risorsa locale, il valore degli immobili.
E gli europei che si trovano bene a Londra non fanno mica solo i banchieri. Un italiano ha disegnato e sta finendo di costruire lo Shard, il grattacielo più alto della capitale (e d’Europa): Renzo Piano. Un francese siede da quindici anni sulla panchina dell’Arsenal, Arsene Wenger, e un portoghese su quella del Chelsea, André Villas-Boas. L’Inghilterra ha un allenatore italiano, Fabio Capello, tra i cui recenti predecessori c’era uno svedese, Sven Goran Eriksson, la cui ex fidanzata italiana, Nancy Dell’Olio, è stata la stella dell’ultima edizione di “Strictly Dancing” (versione britannica dello show televisivo “Ballando sotto le stelle”) ed è l’inamovibile reginetta dei tabloid inglesi. Quanto ai tedeschi celebri che qui si sentono di casa, non bisogna cercare lontano: se la sua famiglia non avesse cambiato nome nel 1917, la regina Elisabetta si chiamerebbe Elizabeth Sachson-Coburg und Gotha anziché Windsor; e il vero casato di suo marito Filippo di Mountbatten è Schleswig Holstein Sondeburg Glucksburg. 
La famiglia reale non è un’eccezione: una ricerca della University City London indica che metà  degli inglesi hanno sangue tedesco nelle vene. Non per nulla si chiamano anglo-sassoni. Ma non c’entra soltanto la genetica: è questione di gusti. «Importiamo più beni dalla Germania che da ogni altro paese del mondo, 45 miliardi di sterline di prodotti all’anno», concede Guy Walters, columnist del Daily Mail, il quotidiano più eurofobo di Londra, «e bisogna riconoscere che ci somigliamo più di quanto non vorremmo ammettere. In effetti ci piacciono le stesse cose: salsicce, birra e automobili made in Germany». Una delle quali, la Bmw, è stata l’artefice della resurrezione della Mini.
Oltretutto, è un amore reciproco: se gli europei stanno bene di casa a Londra, tutti gli inglesi che possono ne comprano una in Europa. Dalla Provenza francese alla Costa Brava spagnola, dal Chiantishire italiano alle isole greche (come nel musical “Mamma mia!”), i sudditi di Sua Maestà  britannica hanno colonizzato le regioni più belle al di là  della Manica: un Impero rinato sotto forma di “seconde case”. Quelli di loro che non l’hanno ancora comprata in Toscana, Umbria (come l’attore premio Oscar Colin Firth, sposato con l’italiana Livia Giuggioli) o Sicilia, si fanno ospitare dagli indigeni, vedi Tony Blair nella splendida villa dei principi Strozzi vicino a Siena, o la affittano, come fece David Cameron in viaggio di nozze a Siracusa, nella «vacanza più bella della mia vita». Per tacere dei 5 milioni e mezzo di britannici, statistiche della Bbc, che all’estero acquistano la “prima” casa, emigrandoci: possibilmente in Spagna, loro meta preferita.
C’è insomma qualcosa di paradossale nel rifiuto dell’Europa da parte di un popolo che se la ritrova in casa e aspetta con trepidazione le ferie per invaderla. «Più che da eventuali regole e controlli che l’Unione Europea vorrebbe imporre alla City», osserva Daniel Franklin, curatore di “The world in 2012”, dotto annuario britannico sullo stato del pianeta, «il futuro di Londra dipende dalla sua capacità  di restare la città  globale per eccellenza». Del resto sei anni fa ebbe la meglio su Parigi, nella corsa ad aggiudicarsi i Giochi 2012, perché veniva percepita come più internazionale, una “cosmo-poli” che si apre al mondo intero, non la quintessenza della britannicità . Le Olimpiadi sportive saranno accompagnate da un’Olimpiade della cultura il cui programma comprende un tributo alla grande coreografa (tedesca) Pina Bausch, una retrospettiva senza precedenti del maestro del Rinascimento (italiano) Tiziano e un festival di tutte le opere di Shakespeare. Beh, Shakespeare è inglese, anzi quanto di più inglese può esistere, potrebbero sottolineare i nazionalisti euroscettici: ma gli organizzatori hanno deciso di fare interpretare le sue 37 opere da 37 diverse compagnie teatrali di tutto il pianeta in 37 lingue differenti. «Chi meglio del Bardo per simboleggiare Londra come moderna Babilonia in cui si parlano 250 lingue?», domanda Emily Bobrow, critico letterario del mensile Intelligent Life. Con lo “splendido isolamento”, concorda Philip Stephens, principale commentatore politico del Financial Times, non si vincono medaglie d’oro: né nello sport, né nella cultura e nemmeno nella City dell’alta finanza.


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