Durban, il mondo trova l’accordo sul clima
DURBAN – Ce l’hanno fatta. Sfiancati da 40 ore di trattativa ininterrotta e da due settimane di conferenza, i delegati di 194 paesi hanno trovato un accordo per mettere le singole economie in grado di salvare il clima di tutti. L’intesa verrà definita entro il 2015 e diventerà operativa a partire dal 2020.
È stato un miracolo arrivato all’alba della seconda notte di negoziati no stop e salutato da un lungo applauso liberatorio. Con l’approvazione della piattaforma di Durban si è allontanato l’incubo di un fallimento che avrebbe sepolto la speranza di frenare il caos climatico, l’intensificarsi di alluvioni, siccità e uragani. «Questa svolta storica segna il successo della diplomazia europea», ha commentato la commissaria Ue Connie Hedegaard.
Le associazioni ambientaliste hanno sottolineato i limiti dell’intesa: non sono state ancora fissate le quote di riduzione dei gas serra; non si è precisato il meccanismo per alimentare il fondo da 100 miliardi di dollari l’anno per il trasferimento delle tecnologie pulite ai paesi in via di sviluppo; la data di inizio degli impegni è troppo lontana rispetto all’urgenza dell’allarme lanciato dai climatologi.
Resta il fatto che dalle vaghe dichiarazioni di principio («l’aumento della temperatura non deve superare i due gradi nell’arco del secolo») si è passati alla road map per un impegno operativo («un protocollo, uno strumento legale o una soluzione concertata avente forza di legge»). Ci vorranno ancora quattro anni per definire i contributi dei vari paesi. Ma già da oggi è chiaro che il carico fiscale sui combustibili fossili aumenterà , mentre gli investimenti sull’efficienza e sulle fonti rinnovabili saranno premiati: un meccanismo destinato ad accelerare lo spostamento del mercato verso le tecnologie low carbon.
Perché se l’obiettivo della conferenza di Durban era ambientale, lo strumento è un rasoio economico che entra nel cuore della crisi per pilotarne gli esiti. In gioco ci sono 400 miliardi di dollari di aiuti economici concessi ogni anno ai combustibili fossili: potrebbero essere dirottati verso lo sviluppo sostenibile. Per questo la battaglia è stata così aspra. L’India ha fatto muro, creando un’alleanza con le nuove economie, per difendere una crescita ancora incerta tra vecchi impianti inquinanti e nuove tecnologie a basso impatto ambientale.
Ma la Cina, che pur avendo molte centrali a carbone è diventa il leader mondiale del solare e dell’eolico, ha fatto da ponte tra i due schieramenti contrapposti finendo per spostare gli equilibri a vantaggio della coalizione guidata dall’Europa, già forte di una maggioranza numerica composta dai paesi africani (che temono l’avanzata dei deserti) e dalle piccole isole (minacciate dall’innalzamento degli oceani).
Così l’accordo alla fine ha convinto tutti, compresi gli Stati Uniti finora paralizzati dal contrasto tra la spinta green della Casa Bianca e il conservatorismo energetico del Congresso. La mappa della riconversione industriale è tracciata: ora bisogna inserire i numeri. La partita non è finita.
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