by Sergio Segio | 4 Dicembre 2011 8:44
In omaggio a questo stile di lavoro del nuovo esecutivo, è opportuno rinviare ogni commento a dopo che i dettagli sulle diverse misure verranno resi noti. Alcune considerazioni sono comunque possibili già a questo stadio: riguardano i criteri sulla base dei quali la riforma potrà essere valutata e il metodo con cui è stata approntata.
Il nostro Paese ha già conosciuto un’infinita serie di micro-aggiustamenti delle pensioni dopo le due riforme del 1992, quella che ha ristretto l’accesso alle pensioni di anzianità e cambiato le regole di indicizzazione delle pensioni, e quella del 1996, che ha introdotto il metodo contributivo. Ci sono stati nuovi interventi nel 1997, nel 2004, nel 2007, nel 2010 e poi ancora i due aggiustamenti “temporanei” introdotti nelle manovre della scorsa estate. Queste riforme ci hanno lasciato in eredità un coacervo di diversi regimi pensionistici, di iniquità e, soprattutto, un forte senso di provvisorietà . Questo mina alla base il patto generazionale implicito in ogni sistema pensionistico e aumenta l’incertezza di famiglie e imprese deprimendo gli investimenti. Inoltre il senso di provvisorietà alimenta il sospetto che prima o poi sarà inevitabile intervenire sui trattamenti pensionistici in essere, modificando le condizioni di persone che, per ragioni anagrafiche, non sono più in grado di generare un reddito alternativo. Fondamentale perciò che la riforma che verrà presentata oggi ci avvicini il più possibile a quello che dovrebbe essere l’assetto definitivo del nostro sistema previdenziale. Dovrebbe candidarsi a essere l’ultima riforma della serie.
Il ministro del Welfare nella sua carriera di studiosa dei regimi previdenziali non ha mai fatto mistero di essere favorevole all’estensione del metodo contributivo. Quindi è legittimo prevedere che il “suo” completamento della riforma vada proprio in quella direzione. Il sistema contributivo premia la lunghezza delle carriere lavorative nel computo del livello delle pensioni mentre guarda all’anagrafe nel decidere quando si può andare in pensione. In altre parole, nell’ambito del sistema contributivo non esistono le pensioni di anzianità , ma solo quelle di vecchiaia. Chi ha 40 anni o più di contributi può andare in pensione alla stessa età di chi ha avuto carriere più brevi, ad esempio a partire da 62 anni, ma può beneficiare di pensioni più alte degli altri. È un principio di equità (chi ha versato di più merita di ricevere di più) e di sostenibilità al tempo stesso (perché il sistema regga bisogna che si tenga conto del numero di anni in cui la pensione verrà presumibilmente erogata). Rende anche molto più vantaggioso lavorare più a lungo del sistema retributivo, quello vigente sin qui, che consentiva di aumentare la pensione, una volta maturati i requisiti per ritirarsi dalla vita attiva, solo a fronte di un incremento del proprio salario. Con il contributivo ogni anno di lavoro aggiuntivo vale circa un 4 per cento in più di pensione. Per questo motivo, il metodo contributivo permette di concedere ai lavoratori più scelta su quando andare in pensione senza mettere a repentaglio l’equilibrio del sistema. Lavoreranno più a lungo le persone che invecchiando continuano ad essere altamente produttive o che vogliono ricostruire i loro patrimoni, risparmi di una vita, erosi dalla crisi. I micro-aggiustamenti degli ultimi anni hanno invece vieppiù ristretto le possibilità di scelta, rendendo le regole sull’età effettiva di pensionamento sempre più rigide e imponendo ritardi del tutto arbitrari tra il momento in cui il lavoratore domanda di andare in pensione e quello in cui riceve la prima prestazione (con le cosiddette finestre mobili). Nel momento in cui si va verso il superamento delle pensioni di anzianità è fondamentale recuperare flessibilità nelle scelte su quando prendere la pensione di vecchiaia. In questo modo la riforma potrà essere maggiormente capita e apprezzata dagli italiani.
I sindacati hanno criticato il metodo con cui si è arrivati alla presentazione della riforma sostenendo che questa volta non c’è stata concertazione. Il pacchetto di misure è indubbiamente figlio dell’emergenza nazionale (ed europea) in cui ci troviamo. Come figlio dell’emergenza è questo governo che chiede a persone che non si presteranno domani al giudizio degli elettori di fare quelle cose che la politica non ha saputo fare e senza le quali anche il più democratico dei governi avrebbe ben poche possibilità di scelta. Ma è davvero difficile lamentare l’assenza di concertazione nel caso della riforma delle pensioni quando è da almeno 15 anni che le parti sociali hanno avuto modo non solo di esprimersi a riguardo, ma anche di porre veti a tutela delle generazioni di lavoratori da loro maggiormente rappresentate, spostando il costo degli aggiustamenti sulle altre. Ed è ancora più arduo considerare il metodo di un governo che finalmente decide come poco democratico quando la cosiddetta concertazione non ha in questi anni offerto rappresentanza a chi è interamente sotto il regime contributivo. Queste generazioni, dopo aver pagato con il passaggio ad un sistema previdenziale che offre rendimenti dal 50 al 60 per cento più bassi di quelli offerti alle generazioni precedenti, si aspettavano di non dover essere ancora loro a pagare, ma così non è stato.
La concertazione non sembra offrire cittadinanza neanche ai lavoratori con più di 55 anni di età che hanno perso il lavoro senza aver raggiunto i requisiti per le pensioni di anzianità e che hanno in questi anni visto allontanarsi sempre di più la data in cui potranno fruire della pensione di vecchiaia, senza che il sindacato abbia chiesto di ampliare la copertura dei nostri ammortizzatori sociali. Stupisce che Raffaele Bonanni definisca il reddito minimo garantito una «misura da anni 70» quando una rete di assistenza sociale di questo tipo esiste in tutti i Paesi dell’Unione europea (inclusi i nuovi Stati membri) ad eccezione di Grecia e Italia. Se davvero il leader della Cisl avesse a cuore le prospettive dei lavoratori più deboli e non solo di coloro che vanno in pensione con prestazioni tre volte più alte degli altri, chiederebbe di introdurre un reddito minimo garantito almeno per quelle fasce di età che saranno investite dalla riforma. Servirebbe a garantire un reddito al di sopra della soglia di povertà a chi a queste età non ha un lavoro nonostante abbia fatto di tutto per trovarne uno e, tenendo conto di tutte le fonti di reddito sue e dei suoi famigliari, non riesce a sfuggire all’indigenza. Se vogliamo che l’equità non sia una parola vuota, non dovremmo certo sentire nostalgia della concertazione.
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