Dietro un candidato nano può nascondersi un gigante
I Democratici, che ne siano felici o meno, sono costretti a rinnovare la patente di candidato al Presidente in carica, a Obama, rendendo le loro primarie una formalità .
Non che Mitt Romney, il Mormone riciclato ma caro all’establishment e ai finanziatori, sia un gigante segreto dietro la sua riciclata e ondivaga statura politica. Che Newt Gingrich, reduce dalle battaglie perdute negli anni ‘90 contro Clinton, da sospetti finanziamenti e da molti letti non coniugali, sia un campione credibile dei «valori tradizionali» tanto cari all’ipocrisia della destra repubblicana cristianista o che Ron Paul, il divertente e scarmigliato «libertario» che vorrebbe di fatto annientare il governo centrale, banca centrale inclusa, sia un candidato serio. Tutti, il supercattolico superdevoto con il destino nel nome, Rick Santorum, grande inquisitore di sodomiti, progressisti e peccatori (per lui sinonimi), il preparato, ma algido ex diplomatico Jon Huntsman (Mormone anche lui), il vacuo e confuso Rick Perry, successore nel Texas di George «Dubya» Bush, o Michelle Bachmann, la «Darling» dell’agonizzante «Tea Party» truccata e acconciata da mogliettina perfetta per un Truman Show politico siano candidati appetitosi.
Ma buon parte del loro «nanismo» è un’illusione ottica. È l’effetto, voluto, di quel processo umiliante che dal 1968, quando divenne la norma interna tra i Democratici e subito dopo tra i Repubblicani, viene chiamato «elezioni primarie». Le primarie sono il tempo del giudizio di Dio, delle ordalie, della lotta intestina fra speranzosi nominalmente dello stesso partito che devono, per arrivare al duello finale, prima annientare i propri compagni di strada.
Quindi, di loro scopriamo tutti i difetti, i peccati e i «peccadillos», le contraddizioni e le incongruenze. Per vincere è necessario demolire gli altri ed è appunto la fase della demolizione quella alla quale si assiste durante le primarie. Il pretesto alto è quello di chiudere i possibili, futuri presidenti dentro quella pentola a pressione che rappresenti un test per le ben più terrificanti pressioni che li aggrediranno dentro lo Studio Ovale. La realtà è che questo è un rito penitenziale in salsa laica, un «boot camp» da Marines concepito per assicurare, darwinianamente, la sopravvivenza del più forte. Bill Clinton, governatore dello Stato più arretrato d’America, l’Arkansas, seppe sopravvivere nel crogiolo del 1992 acceso dalle prima rivelazioni sui suoi incontenibili appetiti carnali, per diventare, e poi ridiventare, Presidente. Reagan, l’affabile e deriso gaffeur con una carriera nella Hollywood di Serie B, fu colui che ebbe la fortuna e il merito di condurre Mikhail Gorbaciov per mano verso la resa dell’Unione Sovietica. Jimmy Carter, il pio coltivatore di noccioline della Georgia, strappò la prima speranza di pace autentica fra arabi e israeliani a Camp David, prima di crollare sotto le rovine di un’altra crisi economica interna.
Nessuno, neppure chi li vota, è mai davvero soddisfatto del candidato scelto, perché sono quasi sempre figli del compromesso e del «meno peggio». Le minoranze di “indignados” e militanti di destra o di sinistra, riescono a volte, partecipando compatti a primarie e caucus nei quali votano al massimo il 20% di chi potrebbe, a imporre il proprio campione puro e duro. Escono un McCarhty pacifista, un Goldwater ultrarconservatore, uno Howard Dean «anti sistema», un McGovern superprogressista, soltanto per essere frantumati quando la maggioranza dell’elettorato, indipendente e moderato, sceglie altri. Il segreto pubblico di ogni vittoria sta nella capacità di arruolare i militanti senza alienarsi i tiepidi e gli incerti, dopo mesi di primarie trascorsi a corteggiare coloro che non ti potranno mai far vincere.
Così fu per Barack Obama, altro “mister nessuno” che seppe crescere e battere la Signora del Partito, la favoritissima Hillary Clinton. E assai spesso, negli anni nei quali la statura dei candidati appare specialmente minuscola, affiora l’ombra del “cavallo oscuro”, del candidato che galoppa al buio. Questa volta il nome che fa rabbrividire e sperare è quello di un altro Bush, Jeb, l’ex governatore della Florida e il figlio prediletto del vecchio George e della materfamilias, la sua Barbarona.
Molto più verosimilmente, per la gioia di Barack Obama che sta guardando il proprio indice di gradimento salire in diretta proporzione con l’economia in fragile ripresa, sarà uno dei «sette nani» colui che affronterà la sfida finale del 6 novembre prossimo. Assisteremo allora al tentativo frenetico di raccogliere i cocci delle primarie e ritrasformare il nano in colosso. A volte, come fu per Goldwater, per McCain, per Kerry, per Dukakis, è troppo tardi per il miracolo della transustanziazione del brocco in purosangue. Passano, come note a piè di pagina della sola storia che conti davvero: la salvezza del tempio americano e della sua imperfetta, ma indistruttibile democrazia.
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