Dieci anni vissuti da dragone

by Sergio Segio | 10 Dicembre 2011 9:17

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Deluso chi sperava in un’apertura totale al mercato. Dopo la grande crescita, anche dei contrasti, “stimolo” record per riequilibrare il sistema: meno low cost, più economia verde PECHINO «Dieci anni dopo, sembra che la Cina si stia allontanando dall’Organizzazione mondiale per il commercio». Questa sorprendente affermazione è arrivata qualche giorno fa – durante un congresso per ricordare l’evento – da Long Yongtu, uno dei negoziatori dello storico ingresso, l’11 dicembre 2001, di Pechino nella Wto. Un abbraccio che contribuì a rivitalizzare il capitalismo ferito dall’11 settembre e aprì ufficialmente quello che secondo molti analisti sarà  «il secolo cinese». Long esprime la delusione di chi sperava in un’apertura rapida e completa al mercato e constata invece che terre, banche e grandi industrie sono ancora nelle mani dello Stato. E teme che, per effetto di un’eventuale seconda ondata di recessione negli Stati Uniti e della crisi dell’euro, le tensioni degli ultimi tempi possano sfociare in vere e proprie guerre commerciali. Chin Leng Lim, docente di diritto all’Università  di Hong Kong, ha riassunto così alla Reuters il percorso accidentato della Wto: «Come la si potrebbe definire Organizzazione mondiale del commercio senza la Cina? E allora, dobbiamo cambiare le regole della Cina o piuttosto modificare le regole globali per adattarci alla Cina?». Contrordine compagni L’investimento previsto è di quelli colossali: 1.700 miliardi di dollari, due volte e mezzo lo “stimolo” varato per uscire dalla crisi del 2008. Una montagna di denaro che, in linea con il piano quinquennale 2011-2016, dovrebbe archiviare il decennio in cui la Repubblica popolare ha rifornito il resto del mondo di prodotti a basso costo e far decollare nuovi settori definiti “strategici”: l’economia verde e l’industria hi-tech. Che non si tratti di un semplice annuncio è stato confermato dal Segretario per il commercio John Bryson, che in un recente incontro con la controparte cinese ha rivendicato una fetta della torta per le aziende Usa. Proprio mentre l’Amministrazione Obama indagava per dumping i marchi cinesi che vendono “sottocosto” pannelli solari negli Usa e Pechino replicava accusando Washington di protezionismo. Dai manufatti low cost alle auto verdi, alle biotecnologie, alle energie alternative: quanto questa trasformazione riuscirà  a essere “indolore”? Nei giorni scorsi gli operai di un’azienda che a Shanghai produce per Apple, Motorola e Hp hanno scioperato contro l’aut aut dei padroni: essere trasferiti assieme allo stabilimento o licenziati senza indennizzi. A Shenzhen e Dongguan, nel Sud di più antica industrializzazione, migliaia di lavoratori stanno protestando per la diminuzione delle ore di straordinario, conseguenza del rallentamento della produzione. L’imperativo è: riequilibrare il sistema. La Cina cresce ininterrottamente da trent’anni, dalle riforme di Deng Xiaoping. Col 9,6% del totale è il primo esportatore del Pianeta, ha accumulato 3.200 miliardi di dollari di riserve in valuta estera ma anche grossi squilibri sociali: il reddito medio è di 4.400 dollari annui pro capite e l’indice Gini sulla diseguaglianza allo 0.41. Con la flessione della domanda dall’estero, per mantenere alta la crescita il Partito comunista (Pcc) punta a sviluppare i consumi interni. Censura, battaglia continua La Repubblica popolare è arrivata in ritardo all’appuntamento con internet, alla quale – 77mo paese in ordine cronologico – si è agganciata nell’aprile del 1994. Ma ha recuperato in fretta e, con 485 milioni di utenti, è oggi lo Stato col maggior numero di cittadini connessi. Tra questi, 300 milioni hanno attivato un weibo. Nati un paio d’anni fa, sono la versione cinese di Twitter (oscurato, come gli altri social network stranieri) e rappresentano una delle forme di comunicazione preferite dai netizen. Se ne sono accorte anche le autorità  e le corporation, che nelle ultime settimane hanno messo i weibo al centro di un’offensiva a base di censura e pubblicità . Bill Gates, Coca Cola, Unilever e Louis Vuitton sono stati i primi a lanciarsi in una vetrina virtuale osservata da una classe media in ascesa che il Pcc sollecita a consumare di più. I controllori sono costretti a inseguire un wangmin (popolo della rete) sempre più audace e a bilanciare gli obiettivi della censura e le esigenze del mercato. Le autorità  hanno dichiarato guerra ai rumor, balle del web come quella di Guo Meimei, giovane disoccupata che sul suo weibo si mostrava, borsa di Hermes in spalla, alla guida di una Maserati e sosteneva di essere un’impiegata della Croce Rossa (al centro di un grosso scandalo); o quella su 20 mila fantomatici terroristi uiguri sieropositivi, sguinzagliati per il Paese a diffondere l’Aids. Per stroncare i rumor, la polizia mette a tacere le discussioni online sui temi più scottanti e rimuove pagine scomode. La maturità  dello yuan Gli Stati Uniti lo considerano tuttora artificialmente sottovalutato, almeno del 20% e tra i congressmen c’è chi sullo yuan è pronto a impostare la prossima campagna elettorale in difesa del made in Usa. Intanto la valuta – che negli ultimi anni si è apprezzata lentamente ma costantemente rispetto al dollaro – continua a rimanere debole favorendo le esportazioni, ma si prepara alla «maturità ». Secondo l’ultimo rapporto della Commissione parlamentare per le relazioni Usa-Cina, Pechino negli ultimi anni ha allentato i controlli sull’utilizzo dello yuan nelle transazioni internazionali, utilizzando Hong Kong per la “sperimentazione”: nel giro di cinque-dieci anni le banconote col ritratto di Mao inizieranno a minacciare il dominio del dollaro sui mercati internazionali. Fate scoppiare quella bolla Pechino: da 4.557 yuan al metro quadro a 17.782 yuan (circa 2.000 euro), negli ultimi dieci anni. Shanghai: nello stesso periodo, da 3.326 a 14.400 yuan. Nella provincia di Zhejiang, da 1.758 a 9.249. Con l’accelerazione dell’industrializzazione e delle infrastrutture, la bolla immobiliare ha avvolto le megalopoli e le aree costiere più sviluppate, dove per le giovani coppie della classe media è ormai impossibile acquistare casa e milioni di lavoratori migranti sono costretti a vivere in baracche e alloggi di fortuna. Quello del mattone è uno dei settori trainanti l’economia (circa il 13% del prodotto interno lordo) anche perché il controllo governativo sui capitali ha spinto a investire in patria. Un affare per tutti tranne che per i cittadini: i palazzinari hanno fatto il loro ingresso tra gli uomini più ricchi della Repubblica popolare, i governi locali – tra non pochi casi di corruzione – hanno beneficiato delle vendite delle terre, lo Stato delle tasse. Da oltre un anno il governo ha messo in atto una serie di misure per frenare i rialzi. Lo scorso aprile, la Commissione di controllo (Cbrc) ha avvisato gli istituti di credito di effettuare stress test per un ipotetico crollo del 50% dei prezzi e del 30% del volume delle compravendite. Secondo i catastrofisti (e i developer, che chiedono di continuare a gonfiare la bolla) le restrizioni e la riduzione dei finanziamenti provocheranno fallimenti a catena di società  e banche, aumento della disoccupazione, instabilità . Per molti analisti la bolla sarà  al contrario l’ennesimo banco di prova delle capacità  di gestione dell’economia da parte del Partito e dello Stato, che sarebbe in grado di riassorbire gli esuberi, ricapitalizzare le banche e alla fine otterrebbe una redistribuzione della ricchezza dagli speculatori alle famiglie, con la possibilità  di aumentare i consumi interni. Amici-nemici, vicini e lontani Sono passati due anni da quando a Tokyo, il 14 novembre 2009, Barack Obama si autoproclamò «primo presidente pacifico» degli Stati Uniti. Pechino stava studiando già  da tempo le mosse dell’avversario sullo scacchiere Asia-Pacifico e, mentre prepara il prossimo viaggio a Washington del presidente designato Xi Jinping (in programma dopo l’insediamento di quest’ultimo nell’autunno prossimo) risponde agli Usa con un’escalation retorica. Ieri il capo dello Stato, Hu Jintao, ha dichiarato che la marina, rimasta indietro nel complesso di forze armate tradizionalmente imperniate sull’esercito, «deve accelerare la sua modernizzazione e prepararsi alla guerra». Qualche giorno fa Obama aveva annunciato la nascita di una base permanente di 2.500 marine a Darwin, il porto nel nord dell’Australia che, a 820 km dall’Indonesia, è considerato una via d’accesso al Sud-Est asiatico. Rispetto a Giappone e Corea del Sud (i due alleati degli Usa più forti nell’area), Darwin è più vicina al Mar cinese meridionale, epicentro di un annoso contenzioso territoriale (sugli arcipelaghi delle Spratly e delle Paracel) tra la Cina, da una parte, e le Filippine e il Vietnam, dall’altra. Nei fondali delle Spratly e delle Paracel ci sono giacimenti di petrolio stimati intorno ai 150 miliardi di barili e di gas, per 3,4 trilioni di metri cubi. E nei mari del Pacifico, come nelle acque agitate dei mercati, a dieci anni dal suo ingresso nella Wto, la presenza della Cina è sempre più ingombrante.

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