Debito e prestiti, il gioco del cerino

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Un tempo i debiti degli stati con i propri cittadini per finanziare le spese si chiamavano debiti «pubblici». Erano debiti «interni», a differenza di quelli «esteri», verso creditori stranieri. Un debito in dollari andava restituito in dollari; il problema era come ottenere un avanzo di bilancia commerciale o investimenti diretti esteri in dollari. Invece, fino a che gli stati godevano di sovranità  monetaria, le banche centrali potevano sempre emettere moneta per restituire il debito pubblico «interno». Ma la situazione oggi è profondamente cambiata. A partire dagli anni ’80, i titoli dei debiti pubblici sono stati piazzati sempre più sui mercati internazionali. Inoltre, a partire dal 2002, quei debiti sono stati denominati in euro; che, seppur non come il dollaro, è però moneta di riserva, cioè accettata da tutti. I debiti pubblici sono detenuti oggi sempre più da creditori esteri, e concorrono con qualsiasi titolo privato sui mercati: da cui il nome «sovrani», per distinguerli. Oggi, la quota dei titoli dei debiti sovrani detenuta dai non cittadini varia tra il 10% del Giappone, il 40% dell’Italia, il 50% degli Stati Uniti fino al 90% dell’Irlanda. L’introduzione dell’euro ha portato un altro cambiamento: il regime dell’euro proibisce esplicitamente alla Bce, in forza sia del Trattato di Maastricht che del suo Statuto, di finanziare i deficit degli stati, con l’acquisto diretto alle aste. La proibizione era invece solo di fatto per l’acquisto sui mercati in quantità  tali che configurassero sostegno ai debiti sovrani. Divieto informale aggirato solo parzialmente l’anno scorso da Trichet e totalmente, oggi, da Draghi.
Si possono dunque tirare le somme sui problemi dei debiti sovrani europei. Ogni anno bisogna finanziare sul mercato i deficit annuali, che ricomprendono gli interessi maturati sul debito pregresso. Ma ogni anno va in scadenza anche una quota del debito totale. Tra il 2010 e il 2011 l’Italia doveva rinnovare un debito pari al 40% del Pil, la Grecia il 35, la Spagna il 25 e l’Irlanda solo il 10%. Nella primavera del 2012, l’Italia dovrà  rinnovare un’altra tranche grossa, circa il 10% del debito. Diciamo rinnovare perché è ovviamente impossibile ripagare tutto il debito in scadenza. La gestione del debito è un equilibrio tra la necessità  di finanziare il deficit annuale e ottenere il rinnovo di quella parte del debito in scadenza che le autorità  monetarie ritengono necessario rinviare: il roll-over. Ma da queste cifre si vede come la riduzione o l’azzeramento del deficit siano di poco aiuto, se dovesse davvero venir meno la fiducia dei mercati internazionali sulla solvibilità  di un qualsiasi paese del sistema euro; Germania compresa, il cui debito è all’80% del Pil. Per converso, paesi con sovranità  monetaria, come la Gran Bretagna, con deficit e quota da rinnovare alte, non hanno registrato le stesse tensioni dei paesi europei.
E’ ovvio che il rinnovo è tanto più liscio quanto meno ci sono preoccupazioni sulla futura solvibilità . Qui sta la chiave della soluzione Draghi alla crisi dei debiti sovrani, che si trascina dalla fine del 2009, e che per l’Italia è esplosa nell’autunno 2011. Mario Draghi, infatti, ha deciso di aprire un credito illimitato al tasso dell’1% alle banche che presentino dei titoli a garanzia, ampliando lo spettro dei titoli presentabili, e prolungando la durata dei prestiti a tre anni. Ovviamente, la Bce si aspetta che le banche approfittino dell’occasione di indebitarsi all’1% per acquistare titoli dei debiti sovrani europei che danno rendimenti molto maggiori. La maggiore domanda di questi titoli sul mercato dovrebbe così alzarne i prezzi e chiudere la fase di crisi, nonché aiutare le banche a aggiustare i loro bilanci.
Fin qui la bella notizia. La brutta è che come condizione per questa apertura della Bce la Ue, ma ancor più la Germania, ha richiesto e ottenuto l’approvazione e l’attuazione di politiche fiscali molto restrittive per pareggiare i deficit di bilancio degli stati membri entro il 2014. L’idea sottostante è che nuove disponibilità  liquide indurranno le banche a maggiori concessioni di crediti a famiglie e imprese, e quindi maggiori investimenti e consumi possano compensare i tagli di bilancio.
Personalmente dubito che vada così. E’ improbabile che una tale iniezione di liquidità  possa convincere imprenditori, e ancor meno consumatori, a tornare a spendere in un contesto recessivo in cui anche i mercati emergenti danno segni di rallentamento, né gli Stati Uniti hanno ripreso il ruolo di «compratore di ultima istanza» dell’ultimo ventennio. Più probabile, invece, che si accentui la schizofrenia tra mercati finanziari in ebollizione e economia reale arrancante; o anche peggio. Ma questa è un’altra storia.


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