Damasco, senza turisti, fra proteste e crisi economica
Anche se nel centro della città non ci sono state manifestazioni di protesta contro il regime di Bashar al Assad, a causa soprattutto della visibile presenza e del controllo dei servizi di sicurezza (mukhabarat) dicono gli attivisti, le proteste e la conseguente repressione hanno interessato interi quartieri – anche centrali come quello di Midan. Episodi di protesta sono diffusi, come cortei improvvisati all’università e nelle scuole. Dopo 9 mesi di proteste e repressione si vedono pochi sorrisi, piuttosto un’aria depressa e preoccupata. La crisi ormai è innegabile, anche se la sua lettura può essere opposta in una società sempre più polarizzata.
Da un lato i sostenitori del presidente, i mnhebak, «ti amiamo» (riferito a Bashar Al Assad), tra cui molti appartententi alle minoranze alawuite, cristiane, druse e alla business élite ma non solo, che guardano la tv di Stato, Syria News, e il canale satellitare Dounia, di proprietà di Rami Makhlouf, cugino di Bashar Al Assad. Dall’altro gli oppositori, che chiedono la fine del regime, iskat al nizam, e dunque di Bashar Al Assad. Guardano le tv satallitari panarabe al Jazeera e al Arabya e quelle dell’opposizione, come Orient tv, Barada.
In un ristorante è entrato un gruppo di giovani che ascoltava canzoni di sostegno a Bashar Al Assad dal cellulare. Il cameriere ha detto: se vi seguiamo finiremo come in Somalia, e loro gli hanno risposto: il sale te lo portano da Homs? In mezzo resta la maggioranza silenziosa, che magari desidera un cambiamento ma ha paura dello stato di polizia o teme l’incertezza del futuro. Anche se il protrarsi della crisi, l’intensità delle proteste, la durezza della repressione – fonti dell’opposizione parlano di oltre 5000 vittime civili, cifra ripresa dalle Nazioni unite, oltre a 2000 militari morti secondo il governo, e migliaia di persone arrestate – rende sempre più difficile rimanere neutrali.
Il Natale, secondo le indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche, è stato celebrato dal circa 8% di cristiani siriani con semplici preghiere, senza processioni e decorazioni, in omaggio alle vittime degli attentati terrostici del 21 dicembre e alla situazione del paese. Gli attentati kamikaze a Damasco, i primi di questo tipo dall’inizio della rivolta, hanno segnato un pericoloso passo nell’evoluzione della crisi. Le autorità li hanno attribuiti immediatamente a al Qaeda. «Sorprende che le autorità siriane, di solito così lente nell’emettere una posizione ufficiale, questa volta siano state così veloci», commenta un diplomatico occidentale.
Secondo Joshua Landis, editore del blog Syria Comment, «sorprende che non siano avvenuti prima. La ragione va ricercata nell’allentamento dell’ordine e della sicurezza derivanti dalla crisi che permette a gruppi radicali, come al Qaeda, di agire». Ma per l’opposizione gli attentati sono opera degli stessi servizi di sicurezza con l’obiettivo di dimostrare agli osservatori della Lega araba l’azione di bande di terroristi. Alcuni si spingono fino a ipotizzare che negli attentati siano stati utilizzati i cadaveri delle vittime degli scontri nell’area di Idlib dei giorni precedenti. «Ma questa volta, a differenza degli attacchi dell’organizzazione terroristica Jund al Islam contro l’ambasciata americana del 2008, non tutta la popolazione crede alla versione ufficiale», continua Omar. Un effetto inconfutabile delle proteste è una «politicizzazione» della popolazione, dove per 50 anni, nel regime di censura e terrore, non si è dibattuto di politica, pur se in forme diverse da quelle occidentali. «I bambini a scuola gridano hurryat, nelle case si commentano le notizie. Da questo non si potrà tornare indietro», afferma Rima Flihan, una scrittrice.
L’arrivo degli ispettori della Lega araba è considerato da tutti, oppositori e sostenitori, un evento importante. Ma è soprattutto la crisi economica a preoccupare gli strati popolari. Le strade pullulano di venditori ambulanti. La disoccupazione è almeno al 30% secondo statistiche non ufficali. Tanti giovani senza lavoro trascorrono la giornata a guardare notizie e commentarle intorno al caffè e molti altri cercano di lasciare il paese, verso la Turchia o i paesi del Golfo. Non ci sono più turisti, i mercanti del suq della città vecchia sono disperati. La lira siriana ha perso il 25% del suo valore – ora viene cambiata a 60 contro il dollaro, prima delle proteste era a 45 – annullando di fatto l’aumento del 30 % dei salari dei dipendenti pubblici concesso dal governo all’inizio delle proteste. «Ma figaz, ma fimazoot», «non c’è gas da cucina, non c’è diesel», si sente ripetere. Si vedono file lunghissime, anche di notte, in attesa del mazoot, del diesel, fondamentale per il riscaldamento e il trasporto. La distribuzione è razionata, gestita dai comitati locali del partito Baath. Più che alle sanzioni occidentali – il 99% del petrolio siriano era esportato in Europa – cio è dovuto secondo gli attivisti al fatto che buona parte del gasolio viene consumato per le operazioni militari. L’energia elettrica viene tagliata in città per almeno due ore al giorno. «Ma nei quartieri dove ci sono le proteste, come Daraya, più a lungo», afferma Omar, uno studente che partecipa alle manifestazioni. Con le basse temperature di questi giorni, è dura, soprattutto per i più poveri. E tutti sono consapevoli che la situazione è destinata a peggiorare.
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