Da Tunisi a Zuccotti Park la primavera della piazza
New York. L’uomo che vuole governare l’America al posto di Barack Obama ha già emesso la sua sentenza. «Volete un lavoro?» ha detto ai ragazzi di Occupy Wall Street che l’hanno intercettato in campagna elettorale: «Prima sarebbe meglio che vi facciate una doccia».
Scherzi del destino. Proprio nella settimana in cui lui, Newt Gingrich, il favorito repubblicano, è finalmente riuscito ad affacciarsi sulla copertina di Newsweek, loro, quelli brutti sporchi e cattivi di Occupy, campeggiano sulla copertina del più blasonato Time: incoronati “Persona dell’anno”.
“The Protester” è il titolo con cui il magazine più famoso del mondo ha riconosciuto Occupy. Inquadrandolo nel movimento internazionale che, dagli Indignados di Spagna alla Primavera Araba – il 17 dicembre è l’anniversario del sacrificio di Mohamed Bouazizi, l’ambulante che dandosi fuoco innescò la rivoluzione tunisina – ha riportato d’attualità la piazza. Ma Occupy Wall Street non era finita? Lo sgombero di Zuccotti Park non aveva segnato l’autunno del “protester”? A cento giorni dall’inizio – il 17 settembre in cui la prima tenda si piazzò a New York – la benedizione di Time rilancia il movimento: che già si rinnova, come si dice nel linguaggio di Internet, nella versione 2.0.
Occupy 2.0. È il nuovo slogan che impazza in rete e che tra pochissimo verrà scandito per le strade di New York. Sabato 17 segna tre mesi di Occupy: e i manifestanti si riuniscono per «celebrare il diritto all’occupazione». Ma non aspettatevi una nuova tendopoli. Almeno nella Grande Mela: dove dalla notte in cui la polizia sgomberò Zuccotti (15 novembre) la parola d’ordine è “occupazione mobile”. Occupy 2.0 inquadra allora il nuovo movimento. Fatto di blitz: come quello che ha riunito manifestanti e squatters per impadronirsi delle case abbandonate di Manhattan. Ma fatto anche di studio e di analisi. Aspettando una riscossa di piazza in primavera il movimento si è acquattato nelle università . Dalla Berkeley delle proteste anni 60, dove i ragazzi hanno trovato uno sponsor entusiasta in Robert Reich, l’ex ministro di Bill Clinton, alla New York University dove stanno per partire i primi corsi sulla Zuccotti-revolution, tenuti da Lisa Duggan, firma del magazine di sinistra The Nation.
E dunque piazza. Università . E sindacato. Prima la protesta per lo sfratto da Zuccotti che portò il 17 novembre 30mila persone per le strade di New York. Poi le occupazioni di Oakland che continuano a far bruciare la California. È il sindacato l’alleato forte di Occupy 2.0: quel Labor che marciando così sta ritrovando potere e visibilità dopo essere rimasto stretto tra l’offensiva repubblicana (ricordate le proteste in Wisconsin quando era stato simpaticamente abolito il contratto collettivo?) e la rabbia mobilizzatrice dei Tea Party.
La politica del 99%. È lo slogan più famoso: «Noi siamo il 99 per cento». Contrapposti all’1 per cento: le banche, le assicurazioni, i poteri forti che hanno portato a questa recessione che non passa. Già il Nobel Robert Stiglitz aveva calcolato anni fa che l’1 per cento degli americani controlla il 40 per cento delle risorse. Ora lo slogan sul 99 per cento riassume quella richiesta di “equità sociale” che sta al primo punto delle proteste. Anche a sinistra molti critici avevano sottolineato la vaghezza del movimento: che cosa vogliono? È richiamandosi ai diritti del “99 per cento” che i democratici stanno invece lottando al Congresso per tentare (inutilmente) di far passare quelle riforme invocate da Obama. Ma Occupy sta “con” o “contro” il presidente? Il buon Barack prima ha espresso il suo sostegno dicendo di capire la «frustrazione»: esprimendo un concetto poi ripetuto perfino da Ben Bernanke, il capo di quella Federal Reserve che agli occhi dei manifestanti rappresenta ovviamente la banca di tutte le banche. Ma il presidente è finito lui stesso vittima. I ragazzi l’hanno interrotto in un comizio: «Quattromila manifestanti pacifici sono stati arrestati mentre i banchieri continuano a distruggere l’economia. E il tuo silenzio manda il segnale che la brutalità della polizia è accettabile».
I volti. Il movimento lanciato dal direttore della rivista alternativa Adbusters, Kalle Lasne, si è definito da subito «senza leader». L’organizzazione orizzontale ha funzionato: anche se poi la polizia sa bene dove andare a bussare. L’ultima vittima è il portavoce Justin Wedes. L’altro giorno l’hanno arrestato (e poi rilasciato) nell’ennesimo blitz. E curiosissima, si fa per dire, è la notizia del suo licenziamento: giovane e amatissimo professore di Brooklyn, è stato cacciato con l’accusa di aver falsificato alcuni registri. Nel vuoto di leadership a emergere sono stati così i volti famosi. Anche perché da Michael Moore a Susan Sarandon i big di Hollywood si sono mobilitati da subito. Il regista di “Bowling at Columbine” è stato il primo a scendere a Zuccotti quando ancora veniva chiamata col vecchio e più simbolico nome: Liberty Plaza. A suonare sono arrivati beniamini storici del movimento come Arlo Guthrie e Pete Seeger e gli ex divi di Woodstock Daid Crosby e Graham Nash – ma anche Jackson Brown e i Rage Against the Machine. Tanti gli scrittori: dall’Eve Ensler dei “Monologhi della Vagina” fino a Salman Rushdie. E in piazza è sceso anche Roberto Saviano.
Ma al di là dei volti eccellenti sono i numeri a dare un’idea. Tutti i sondaggi danno un supporto che è arrivato a toccare il 59 per cento. Con una fascia di preferenza d’età che solo superficialmente può stupire: la protesta va fortissima nel segmento dai 50 ai 64 anni. L’età insomma di chi in questi anni si è visto erodere tutto dall’ingordigia di Wall Street e adesso teme il dopo-pensione. Ma forse il numero più sorprendente è quello che proprio ieri ha fornito la Quinnipiac University: il 51 per cento dei newyorchesi ha bocciato lo sfratto di Occupy voluto dal sindaco Michael Bloomberg. E addirittura l’80 per cento sostiene che è dovere degli amministratori intervenire per assicurare ai lavoratori «una paga decente». No, cento giorni dopo Occupy non è solo un fenomeno da copertina. Newt Gingrich se ne farà una ragione – Obama già lo sa, e ci spera: la corsa alla Casa Bianca passa anche dai “protester”.
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