Da piccola a grande, andata e ritorno

by Editore | 18 Dicembre 2011 9:49

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Il nome e la voce di Cesaria Evora identificano subito il carattere schivo e risoluto di Capo Verde, ma sono anche espressione diretta, sfoggio della sobria eleganza che abita su questo arcipelago sbriciolato in mezzo all’Atlantico, al largo delle coste occidentali africane, tra capre e ciuffi di aloe. Malgrado la tipica riluttanza delle isole a dar di che vivere alla propria gente, tardivamente insediata nella mescolanza violenta della tratta schiavistica. Un posto da cui spesso non si può che partire ma nel quale poi non si desidera che tornare. Cizé e la sua voce non fanno eccezione. In più hanno dato lustro e vanto, oltre che un legame indissolubile con queste terre, a tutti i capoverdiani costretti a emigrarsene (circa metà  della popolazione). 
Nessuno ne parla mai, di Capo Verde, se non di striscio, appunto, tra le note biografiche della cantante scomparsa ieri a Sao Vicente. In mancanza di spiagge memorabili il paese non ha mai potuto godere di un testimonial più persuasivo. Anche se ha un «padre della patria» come Amilcar Cabral, agronomo, poeta e guerrigliero anti-colonialista, uno che con Lumumba e Sankara poteva salvare l’Africa e forse il pianeta da quel che lo attanaglia ora, e invece niente, tutti e tre assassinati sul più bello. Anche se un musicista acuto come Mario Lucio Sousa sta al governo e ieri, da ministro della cultura, si è preso la briga di comunicare la brutta notizia al mondo. Un mondo divenuto vasto, variegato, bisognoso, appassionato di Cesaria Evora, disco dopo disco. Ma quel che ne deriva in termini di attenzione e seguito internazionale non ha mai messo in discussione in Cesaria Evora il sentimento della tipica pequeà±eza capoverdiana, intesa come dimensione poetica raccolta, il vezzo di esibirsi scalza indugiando intorno a un tavolino con l’abat-jour accesa, l’atmosfera scarna dei bar di Mindelo in cui è cresciuta cantando a cottimo per i marinai di passaggio. Una «piccolezza» che ha finito per farla giganteggiare. E che insieme alla maledizione struggente della sodade e all’accogliente concetto di morabeza costituisce i termini del rebus musicale luso-africano elaborato a Capo Verde, in forma di morna e coladeira innanzitutto. Il tratto socio-emozionale più intenso delle isole e di chi le abita. Un minuscolo universo che nell’aprirsi a tutte le rotte intercontinentali possibili non ha mai sofferto di agorafobia. «Sono passata da un posto piccolo e semplice a uno molto più grande e complicato – raccontava la cantante al manifesto nel 2001 – ma non mi sono affatto persa. Quando ho lasciato Capo Verde per venire in Europa ho pensato che se non fossi piaciuta potevo sempre tornarmene a casa. Nel qual caso ora sarei ancora lì, come un pesce secco abbandonato sulla spiaggia. Oggi passo buona parte dell’anno in giro per il mondo, ma la mia casa, la mia famiglia, la mia cultura sono a Capo Verde». E precisamente nella cucina di casa sua, crocevia degli affetti e delle ammirazioni più conviviali. Al centro del mondo che ha imparato ad amarla.

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