Da Croce a Bobbio, la filosofia che ha fatto l’italia

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È difficile incontrare, non solo in campo politico ma in ogni angolo della vita di relazione, qualcuno che non si dichiari “liberale”, quasi fosse una benemerita professione di fede, di rado accoppiata all’obbligo di chiarirne i contenuti, la natura e gli intenti. È un precedente che va registrato sfogliando l’ultimo libro di Massimo L. Salvadori, intitolato Liberalismo italiano, e apparso in edizione Donzelli (pagg. 176, euro 28). L’opera mi pare idonea a dissipare le nebbie che, per pigrizia o desuetudine concettuale, circonda la materia.
La selezione che l’autore ha compiuto all’interno di coloro che si sono distinti in quanto liberali o promotori del liberalismo è, benché ristretta, molto rappresentativa: partendo da Cavour, allinea Croce, Einaudi, Bobbio, Abbagnano e Matteucci. Il sottotitolo, “I dilemmi della libertà “, sottrae in partenza al lavoro di Salvadori qualsiasi sospetto di centone celebrativo. Il lettore vi troverà , al contrario, una trattazione vivace e controversiale, adeguata alla severità  dei tempi molto “mossi” in cui quel concetto o istituto – il liberalismo – ha svolto la sua carriera.
Fra le suggestioni, provenienti dai massimi paesi europei, che influirono sul concetto italiano di libertà , campeggia l’esempio della Gran Bretagna, che per Cavour rappresentò il massimo modello cui ispirarsi: «fu l’Inghilterra», scrive Salvadori con un’efficace immagine simbolica, «il faro del progresso moderato e la sua Gerusalemme». Da lì provenivano i più efficaci moniti e suggerimenti per «salvare la società  dalle opposte minacce dell’anarchia e del dispotismo». In questo quadro, l’espressione “giusto mezzo”, dal Cavour adoperata e passata in proverbio per sintetizzarne l’ideologia, è tutt’altro che una scorciatoia o un luogo comune. È l’unica direttiva adatta a sventare l’entrata in azione di forze contrarie all’esercizio delle libertà , in primo luogo di quella “commerciale e di impresa”, della quale lo stesso Cavour va considerato (e non è affatto una “diminutio”) l’autentico apostolo.
L’espressione con la quale il leader piemontese sintetizzò l’impressione che gli aveva destato il Quarantotto francese – «nuova invasione dei barbari» – può far comprendere la veemenza dei suoi convincimenti. Né sembri dettata da tranquillità  d’animo la frequenza con cui ricorre, nei suoi scritti e discorsi, l’aggettivo “onesto”, sinonimo volta a volta di razionale o di moderato: «le genti oneste», «gli onesti intendimenti», «un ministero onesto». La non lunga presenza di Cavour al vertice delle istituzioni piemontesi sul punto di trasformarsi in “italiane”, non ebbe, a volerci riflettere, nulla di pacifico: fu una missione e una sfida. E si potrebbe continuare, rintracciando da una pagina all’altra di Salvadori, i sentimenti – o meglio, spesso, i risentimenti – espressi dal Conte nei riguardi di Mazzini o della gerarchia ecclesiale, della «marea reazionaria» e dello «spettro del comunismo», del «cattivo socialismo» e della «maledetta repubblica». E non è un deliberato catastrofismo il notare che molti degli ideali cui il primo premier dell’Italia unita dedicò il suo magistero – a partire dalla «libera Chiesa in libero Stato» – rimangano al centro di diuturne contese.
Da Cavour a Croce, il clima sembra rasserenarsi. Troppo, si direbbe, secondo tanti suoi critici. Il filosofo napoletano – la cui mirabile operosità  varcò frangenti drammatici della vicenda italiana – dettò del liberalismo e della sua prevalenza nella società  un’interpretazione che appare eccessivamente relegata nell’empireo delle idee. Non ci sembra di deformare il giudizio che Salvadori offre della contesa fra Croce ed Einaudi in materia di Liberalismo e Liberismo, se avanziamo, per quel che vale, una sommessa ipotesi in merito alla sua “preferenza” per il secondo rispetto al primo. Finita in parità , fra loro, la vicenda dell’iniziale favore, più o meno veemente, concesso al regime di Mussolini – circostanza sulla quale l’autore non infierisce, contestualizzandola nel tempo – resta viva l’impressione che Einaudi risulti il più cavouriano all’interno della coppia di «dioscuri del liberalismo conservatore del Novecento». A sedurre l’autore concorre, mi sembra, la stessa collocazione qualitativa del futuro Capo dello Stato come quella di un economista che elabora una sua filosofia sociale: il che basterebbe, di per se solo, a chiarire il terreno sul quale si svolse il suo confronto con il direttore della Critica.
E d’altronde l’idea “metapolitica” (cioè, per intenderci, collocata “al di là “, “dopo”, “oltre” gli eventi della vita pubblica) del liberalismo, arditamente rivendicata per decenni da Croce, è forse il tema più dibattuto nell’intero libro, oltre a rappresentare – lo accennavo poco più su – la riserva “anticrociana” custodita da tanti fra coloro che pur vennero da lui incoraggiati alla libertà  anche in frangenti crudamente negativi, come l’avventura fascista.
Valga per tutti l’esempio di Norberto Bobbio, quarto tra i protagonisti di queste pagine (dove la presenza di Nicola Abbagnano e Nicola Matteucci sembra limitata a quella di originali e a tratti personalissimi suggeritori di idee). Il ruolo del pensatore torinese viene ricondotto – ma forse sarebbe più opportuno dire “esaltato” – al livello di “filosofo militante”, forse il maggiore che si sia distinto nei decenni del dopoguerra e della Repubblica. Il fatto che egli abbia accompagnato un cinquantennio di storia italiana, dalla sconfitta delle forze della Resistenza – in cima alle quali il partito d’Azione, forse la falange d’uomini e pensieri più denigrata della storia recente – allo sforzo diuturno di trasformare il comunismo in socialdemocrazia, dal suo impegno a mitigare, a sinistra, «il disprezzo delle cosiddette libertà  borghesi» alla sua difesa metodologica del dubbio e del dialogo, ne fanno un vero campione di Liberalismo. La sua constatazione che «le società  libere non sono mai state attuate» e che «la loro attuazione è più lontana che mai» vale, per chi ha conosciuto l’uomo, assai più come stimolo che come maledizione.


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