Da celan a Littell la mania del plagio

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Ci sono imprese pericolose anche nel campo, in apparenza fin troppo tranquillo, degli studi di teoria letteraria. Non si può infatti sottovalutare la sgradevolezza della palude psichica in cui si è volontariamente calata Marie Darrieussecq per scrivere Rapporto di polizia (Guanda). L’oggetto di questo libro così appassionato e originale è l’accusa di plagio, ingiusta e non suffragata da alcuna prova, che con agghiacciante regolarità  ha afflitto l’esistenza di moltissimi scrittori moderni. Componendo le loro opere, questi scrittori tutto avevano in mente, tranne che appropriarsi indebitamente di qualcosa che non gli apparteneva. Ma la convinzione di essere derubati, e la certezza di ritrovare la propria farina nel sacco altrui, non sono argomenti razionali, da sottoporre alla verifica della ragione. Mentre infanga il calunniato, la presunta vittima e i suoi seguaci sono convinti di combattere a favore di valori e diritti indiscutibili. Il loro discorso non si appoggia su prove, ma cresce su se stesso nutrendosi delle sue stesse convinzioni. 

Tanto più oggi che internet è capace di trasformare all’istante qualunque venticello di calunnia in una bufera. Marie Darrieussecq non ha dubbi: «il plagio è una nozione idiota, la cui frequentazione rende idioti». Se l’autrice di Troismi e Nascita dei fantasmi ci ha speso sopra così tanto tempo e così notevoli energie, il suo non è un atto di conoscenza disinteressato. Più di una volta, infatti, l’accusa di plagio è ricaduta su di lei. Ma questo interesse privato nella materia, questo coinvolgimento in prima persona, anziché sminuire il rigore della ricerca, lo esaltano. 
Si parte con la convinzione che qualcuno ci abbia derubati, e si finisce con le tecniche di controllo degli stati totalitari e la selva di interdetti, di censure mascherate da giuste regole che da sempre minacciano la libertà  della scrittura. La storia è piena di esempi fin troppo eloquenti, come racconta Marie Darrieussecq. Nella Russia di Stalin, l’accusa di plagio non solo era grave in sé, ma rappresentava il campanello d’allarme della catastrofe imminente. Per Osip Mandel’stam fu letteralmente l’inizio della fine. Per scrollarsi di dosso la calunnia di essersi appropriato del lavoro di un altro, il grande poeta compose un capolavoro satirico, La quarta prosa, che servì solo a peggiorare la sua posizione agli occhi delle autorità . Tra l’ingiusta accusa di plagio e la fucilazione in un gulag c’è una specie di ineluttabile, tragica linea retta. L’opera poetica di Mandel’stam sta alla lingua russa come quella di Paul Celan sta al tedesco. Celan aveva una vera e propria venerazione per Mandel’stam, e ne tradusse anche qualche poesia in tedesco. Ebbene, questi due immensi geni lirici hanno in comune anche l’aver subito una prolungata ed insensata accusa di plagio. Questa volta, fu la vedova di un altro poeta e amico di Celan, Yvan Goll, a mettersi in testa che Celan si fosse appropriato del tesoro delle parole e delle metafore del marito. Per ben tre volte questa donna organizzò delle vere e proprie campagne d’opinione, sfibrando il carattere di Celan, che nel 1970 avrebbe concluso la sua difficile vita di sopravvissuto ai lager nazisti annegandosi nella Senna. 
Non sempre le storie di plagi immaginari hanno conseguenze tragiche e dolorose come nei casi di Mandel’stam o Celan. Resta il fatto che la vittima innocente di questa mania si trova, suo malgrado, deportata in una specie di sottosuolo alla Dostoevskij. Quello che impressiona nei racconti di Marie Darrieussecq è la quantità  di violenza repressa e ottusità  necessarie al funzionamento della mania. 
C’è da aggiungere che questa, come tutte le patologie, ha una storia e un’evoluzione. Il plagio “classico”, se così vogliamo chiamarlo, consisteva in un furto di parole, o di invenzioni narrative. Si rubava dai testi, dalle parole altrui. Oggi il diritto di proprietà  si è esteso alle esistenze e alle esperienze. Anche su queste, l’ossessione del plagio esercita la sua delirante sorveglianza. Solo chi ha vissuto certe cose ha diritto di parlarne, in qualità  di testimone. E il narratore che immagina i sentimenti della vittima, o del carnefice, penetra non autorizzato in una specie di recinto sacro, e si trasforma in un sacrilego. Perché ha immaginato l’esistenza di un criminale nazista, un romanziere come Jonathan Littell, l’autore delle Benevole, è stato riprovato come un ladro di dolore, un usurpatore. E in una sanzione analoga è incappata Marie Darrieussecq quando, in un suo romanzo, ha tentato di immaginare la perdita di un figlio. Ma è giusto, si chiede Marie Darrieussecq, chiedere a uno scrittore di rispettare qualcosa come sacro? Non è proprio quel limite che la sua parola deve trasgredire? Viene proprio da pensare che il moralismo contemporaneo eriga più limiti e divieti di quelli che i regimi totalitari del passato erano in grado di escogitare. E quello di Marie Darrieussecq va salutato come un inno alla libertà , alla capacità  di empatia, alla necessaria scorrettezza dell’invenzione letteraria.


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