Crisi alla frontiera Usa-Messico
CAMBRIDGE (Massachusetts) – Per il sogno americano tira aria di crisi anche dalle parti della «frontera», il confine di tremila chilometri tra Stati uniti e Messico da sempre crocevia bollente del dibattito sull’immigrazione. Secondo i dati pubblicati dall’agenzia di stampa Associated Press, tra ottobre 2010 e settembre 2011 gli immigrati arrestati dalla polizia di frontiera mentre cercavano di entrare illegalmente negli Stati uniti dal Messico sono stati 327,577. Era dagli anni Settanta che non si registrava una cifra così bassa. Nonostante il dipartimento per la Sicurezza interna, guidato da Janet Napolitano, canti vittoria – questo record, dicono, è frutto dell’aumento delle pattuglie e dell’introduzione di tecnologie migliori – i numeri raccontano una storia più complessa.
Mentre gli agenti che pattugliano il confine, dal 2004 a oggi, sono aumentati dell’85 per cento, il calo degli arresti, iniziato nel 2005, ha subito un picco soprattutto negli ultimi tre anni. Nel 2008, l’annus horribilis del crack finanziario che ha messo in ginocchio l’America, gli immigrati fermati sono stati 705.022 contro i 540.851 del 2009 e i 447.731 del 2010. Al record di arresti se ne accompagna un altro, sul fronte delle espulsioni, che ha interessato gli immigrati irregolari già residenti nel paese. Sempre nell’ultimo anno, l’Immigration and Custom Enforcement, il braccio operativo del dipartimento di Sicurezza interna, ha rispedito nei rispettivi paesi di origine quasi 400mila persone, non senza dure critiche da parte delle associazioni ispaniche, a cui Obama in campagna elettorale aveva promesso riforme radicali in materia di immigrazione. Un record tanto più difficile da digerire, visto che la stragrande maggioranza dei dieci milioni di irregolari che vivono negli Stati uniti sono immigrati di vecchia data. Secondo un recente studio del Pew Research Center, un think tank di Washington, circa due terzi di loro vive nel paese da almeno dieci anni. Eppure, a dispetto di questi numeri, quasi tutti i candidati in corsa alle primarie repubblicane continuano a invocare il pugno di ferro: espulsioni di massa e completamento della costosa barriera di sicurezza che per il momento copre soltanto un terzo del confine con il Messico. Michele Bachmann, la candidata del Tea Party per le presidenziali 2012, se l’è presa con i giovani irregolari arrivati negli Stati uniti al seguito dei genitori e ribattezzati «dreamers» perché promotori del Dream Act, una legge che, a certe condizioni, ne regolarizzerebbe lo status. Dopo qualche apertura iniziale, il governatore texano Rick Perry ora fa campagna elettorale con Joe Arpaio, sceriffo dell’Arizona noto per la sua incendiaria retorica anti-immigrati. Anche Mitt Romney, uno dei due favoriti nella corsa, finora è stato inflessibile. L’altro, Newt Gingrich, si è detto invece disposto ad avviare un processo di regolarizzazione per coloro che vivono nel paese da molto tempo. E quella di Gingrich potrebbe essere una mossa meno avventata di quanto molti l’abbiano giudicata a prima vista. Secondo un recente rilevamento del Washington Post-Abc, in materia di immigrazione Gingrich è il favorito tra i votanti del caucus repubblicano dell’Iowa. Anche il Pew Research Center ha riscontrato l’esistenza di un fronte moderato piuttosto consistente – anche se minoritario – stavolta a livello nazionale: il 41 per cento dei repubblicani interpellati si è detto favorevole all’introduzione di un percorso di regolarizzazione per certe categorie di immigrati irregolari, congiuntamente tuttavia al rafforzamento delle frontiere. Secondo lo stesso rilevamento, il 43 per cento si è espresso esclusivamente a favore di più sicurezza ai confini.
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