COSàŒ BERTOLUCCI NARRAVA I PITTORI

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Vengono ripubblicate in questi giorni in un elegante volume edito da Rizzoli (pagg. 287, euro 35), ottimamente curato e introdotto da Gabriella Palli Baroni, le brevi e magistrali Lezioni d’arte scritte da Attilio Bertolucci tra il 1955 e il 1965 e apparse sulla rivista aziendale dell’Eni Il gatto selvatico, allora diretta dal poeta. Per una fortunata e, immagino, non casuale coincidenza, il libro esce allo scoccare del centenario della nascita, avvenuta a San Prospero, nella campagna parmense, il 18 novembre 1911, di quello che fu definito da Pasolini, che lo ebbe sotto più d’un aspetto a modello, il «più dolce, caro poeta del mezzo secolo». Come salutare meglio la ricorrenza che immergendosi in pagine antiche, ma, per la maggior parte dei lettori di oggi, nuove e freschissime? Ci ritroviamo nel flusso incantato di quelle che, con espressione di Roberto Longhi, maestro di Bertolucci, possiamo definire “equivalenze verbali” di un panorama artistico che parte dalla metà  del Duecento con Cimabue e si snoda attraverso i secoli, spingendosi fino alla pop art di Oldenburg. Bertolucci si accosta ai dipinti, li descrive, ricolloca nella realtà , dando voce e significato a rivelazioni silenziose: arricchisce la pittura con l’elemento sonoro del linguaggio. È questo il miracolo di queste pagine e di tante altre, scritte in tempi diversi, che hanno per oggetto l’arte e la letteratura. 
Ma come autore in proprio, come poeta, Bertolucci inclina a un’operazione più radicale e complessa, che ricorda l’opera totale wagneriana, a cui concorrono tutte le altre, ma per la quale dispone solo di parole. Ho ancora in mente il modo insieme allarmato e inerme con cui Bertolucci si muoveva per Monteverde vecchio, a Roma, quando lo accompagnavo, ai tempi della mia giovanile e rispettosa amicizia per lui. Il mondo come volontà , per dirla con il filosofo, non finiva di assalirlo; aveva bisogno di filtrarlo, fissarlo e svirulentarlo nella rappresentazione. Buona parte della sua poesia, dalla raccolta giovanile Sirio (1929) a Fuochi in novembre (1934), La capanna indiana (1951-1955) e Viaggio d’inverno (1971) parte da un movimento pittorico, consiste in una apparizione del mondo in cui tutto, anche le idee, è intercettato dallo sguardo, risulta “visto”. Ciò appare soprattutto evidente nella Camera da letto (libro primo, 1984 e secondo, 1988), lo sterminato romanzo in versi composto intenzionalmente contro il precetto di Poe, che sconsigliava ai poeti moderni di scrivere componimenti troppo lunghi. Si tratta per lo più di scene di vita familiare e quotidiana, di epifanie della natura, istanti introspettivi di dolcissimo strazio, strappati al tempo contro tutte le leggi della narrazione. Le immagini della realtà  si succedono con un movimento che ricorda quello lento e inesorabile d’una pellicola, la vita si trasforma in un film: scorre, ma non passa, avviene in un presente in cui tutto è fermo per un’oscura, salvifica e disperata malìa. Ne risulta un romanzo, forse l’unico che sia stato scritto, in cui il grande tema è la macerazione e dissoluzione del tempo.
Pian piano si sviluppa, in particolare nei versi attorcigliati come lenzuoli, della Camera da letto, un patema onirico, doloroso, vibrante e metamorfico. Parallelamente si fa sempre più ricca la dotazione di parole di questa poesia: Bertolucci sembra sviluppare un suo sommesso, ma amplio e variegato patrimonio lessicale che ha pochi eguali nella poesia contemporanea, non solo italiana. In esso si raccoglie e s’incrocia l’eredità  tutta nostrana di Pascoli con quella di autori di diversa lingua, soprattutto Wordsworth e Proust. È quel che consente al poeta di essere traduttore straordinario, fedele e personale, di artisti tra cui spiccano Shakespeare, Milton, Kipling, Frost, Pound, Eliot e soprattutto Baudelaire, di cui sono tradotti integralmente e in splendida prosa Les fleurs du mal.


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