Come scrivere un’altra storia
Facciamo finta che sia l’ultimo giorno del dicembre 2012 e voi stiate leggendo questo articolo in cui si cerca di vaticinare uno degli aspetti della vita nel 2013. Vi distraete, abbassate il volume della radio, chiudete la finestra da cui entra il rumore del traffico. Dov’è la notizia? Siete vivi. E lo sono anche tutti (o quasi) gli altri. L’apocalisse non è avvenuta. La scadenza profetizzata dai Maya, o da qualche interprete infedele, è passata e il genere umano è ancora qui. Di più, non si è realizzata neppure la sottoprofezia, quella tipica da aggiustamenti della vigilia, secondo cui sarebbe finito, semplicemente, il mondo come lo conosciamo. È proprio lo stesso: gente inscatolata nelle auto, commercianti che piangono miseria, evasori fiscali dietro ogni angolo. Se proprio ci sarà una differenza non è che saremo morti, ma che sarà risorto il cinepanettone o teleberluscone. Tanto per prevedere qualche altra apocalisse in do minore.
La verità è che non ne possiamo fare a meno, della fine del mondo. È come il festival di Sanremo: un’idea il cui unico pregio sta nel sopravviverle. E, nell’attesa, nel parlarne. E scriverne. Sia chiaro che questo non è un articolo sulla fine del mondo, ma sulla fine della fine del mondo: scavalca a sinistra Francis Fukuyama, a destra Richard Matheson e al centro Michel de Notre Dame, detto Nostradamus.
La fine del mondo più che una profezia è un ritornello. I suoi tempi e modi si ripetono a intervalli prefissati da uno spartito su cui si esercita un’orchestra compiacente. Viene scovata una diceria: che l’indizio sia contenuto nel codice Hammurabi o nei testi di Jim Morrison, non fa differenza. Parte il passaparola. Inizialmente si mormora di un convegno di chiaroveggenti tenuto in Perù, ma in poche settimane arriva lo speciale su Retequattro. I pionieri della notizia la prendono seriamente e, a sette anni dalla scadenza, annunciano che non si riprodurranno “perché non avrebbe senso né futuro”. Quando il popolo si impadronisce dell’annuncio lo bistratta alla maniera di Flaiano con il marziano a Roma: “Ma ‘sti Maya ‘ndo stanno? Estinti? E che, non l’avevano previsto?”. In effetti sì, si veda quel gran film che è Apocalypto, ma le uniche previsioni che ci piace ignorare sono quelle poi realizzate. Lì sì che ci viene un brivido. Dura poco. L’oroscopo letale ci serve da esorcismo. Sia nella versione religiosa (diluvio di rane) che in quella laica (riscaldamento globale). Per un po’ se ne parla in termini scientifici, poi arriva Giuliano Ferrara, sputa sui posteri e ripensiamo serenamente a che fare nel weekend, la nostra idea di lungo periodo. Mal che vada, con il mutuo ci avrà rimesso la banca. Per cui eccoci qua, ben oltre non una ma due soglie millenarie, oltre l’interpretazione funesta di almeno un paio di centurie, con l’orologio della mezzanotte in riparazione e la convinzione che la causa scatenante del finimondo sia come le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein: un pretesto per determinare comportamenti. Fedeli al proverbio “quel che non ammazza ingrassa”, organizzeremo cenoni per la sopravvivenza alla mezzanotte del 21 dicembre 2012 e brinderemo a Harold Camping, quello che annuncia il giorno del giudizio due volte l’anno, nel frattempo ha avuto un ictus, ma non è morto manco lui. Alzeremo i calici e vedremo un riflesso di luce guizzare sulla superficie del cristallo e poi sparire. Come farà questa nostra specie nell’universo, occupandone la stessa frazione di tempo e di spazio, lasciando il medesimo segno: nulla. Succederà . Forse è già successo una o più volte. La cosa meno utile è saperlo.
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