Come è bello riscrivere la parigi di henry james

by Editore | 30 Dicembre 2011 7:05

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Che Cynthia Ozick abbia da sempre venerato Henry James è cosa nota, ha cosparso di saggi e tic jamesiani tutta la sua vita letteraria di ottuagenaria. Ora però la più cerebrale e raffinata delle scrittrici ebree americane ha fatto un passo in più, definitivo, per lasciare l’autore di Ritratto di signora alle spalle. Corpi estranei (trad. Simona Vinci, Bompiani, pagg. 316, euro 18), il suo ultimo romanzo è infatti dichiaratamente il negativo de Gli ambasciatori uscito nel 1903, il più completo e complesso, come lo definì lui stesso, dei libri dello scrittore anglo-americano, comunque centrato sul contraddittorio rapporto, onnipresente nella sua produzione narrativa, tra il nuovo mondo e il vecchio continente. Se James però vedeva le capitali europee d’inizio Novecento come il centro di una cultura antica, luminosa e immensamente più sofisticata e libera di quella puritana statunitense, la Ozick, invece, che ha collocato la scena nei primi anni ’50, guarda l’Europa e la coglie mentre emerge dallo sterminio e dai demoni della guerra, macchiata da un peccato indelebile.
Quindi eccoci nel 1952. Marvin, un maturo industriale americano di successo, un uomo arrogante e volitivo tutto proteso all’ascesa sociale fin dal matrimonio con una ricca wasp – un uomo che non ha però cambiato il cognome ebraico d’origine Nachtigall, immigrati da Minsk – , chiede alla più modesta, solitaria e dunque disprezzata sorella 48enne Bea Nightingale – lei sì è intervenuta sul nome di famiglia! – di andare a Parigi a ripescare il figlio Julian che si è fermato nella capitale francese ormai da tre anni e ha fatto perdere le sue tracce. Lo rivuole a casa, e Bea malvolentieri parte, così come il cinquantenne Lambert Strether de Gli ambasciatori era stato mandato a Parigi dalla abbiente fidanzata in età  per convincere il rampollo Chad Newsome a tornare in America. Ma se i boulevard e la dama che avevano catturato Chad erano il simbolo stesso del glamour e della joie de vivre, il giovane Julian della Ozick, per quanto all’inizio si confonda con gli altri ragazzi americani sempre per bar – infatuati dell’esistenzialismo e delle leggende su Hemingway e Gertrude Stein – , incontra fantasmi e non miti, vede una Parigi strattonata dalla storia, popolata anche da disoccupati, profughi, sopravvissuti della Shoah, poliglotti in dozzine di lingue diverse che “sfuggono dal loro passato”, che “portano l’Europa sulla loro pelle come un tatuaggio”. Ed è con una di loro che Julian si accoppia e poi si sposa, Lilli, rumena, parecchio più grande di lui, misteriosa, spezzata dalla perdita del primo marito e di un figlio non si sa dove, povera, saggia per forza, sempre le maniche lunghe anche nel caldo più soffocante, avida di Julian.
È questa la sorpresa che la riluttante ambasciatrice Bea si trova di fronte, e per quanto venga trattata male dal giovane nipote (e dalla di lui sorella Iris che nel frattempo l’ha raggiunto a pur di fuggire all’oppressione paterna), capisce che quella fuga, quella vita, quell’incontro con una donna che “ha insegnato a Julian cos’è la morte”, non possano che rappresentare una crescita per lui, e in mezzo a mille reticenze, verità , bugie, manipolazioni a 360 gradi, decide di favorire la scelta di autonomia dei due ragazzi. Non sa bene perché, non sa bene neppure come procedere, ma quella visione così forte e concreta dell’umanità  la spinge ad affrontare, ad elaborare anche una serie di ferite che ha lasciato aperte nella sua vita e nella sua mente. La potente, a volte persino straniante, lingua della Ozick ci porta attraverso molti flashback nelle esistenze di tutti i protagonisti, Bea, il suo ex borioso marito musicista Leo, Julian, Lilli, Iris, Marvin, la moglie ormai malata di mente di quest’ultimo, i capostipiti Natchtigall. I conti ora sono fatti, l’unico approdo possibile è l’America (o Israele, che si intravede di lontano). Cynthia Ozick ha tessuto il suo affresco: a Henry James, crediamo, piacerebbe, anche se i valori si sono invertiti.

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