Come difendersi dai nuovi barbari

by Editore | 30 Dicembre 2011 9:26

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La costruzione europea – «la più grande invenzione politica della seconda metà  del Novecento» – si trova a un tornante decisivo della sua storia, dal momento che la crisi non ha soltanto un carattere monetario e finanziario, ma investe le prospettive politiche e ideali e la fiducia stessa che i cittadini ripongono in questo progetto. Naturalmente, il problema sollevato da Napolitano è tanto più acuto in quanto riguarda il nodo della formazione politica e della selezione delle classi dirigenti. Da troppo tempo si ha l’impressione che i cittadini europei meglio preparati non scelgano l’impegno politico, ma preferiscano intraprendere altre professioni, spesso più remunerative e gratificanti. La questione non concerne soltanto le leadership, che seguono criteri di distinzione carismatica difficilmente prevedibili, ma il livello medio di quanti si occupano della cosa pubblica, a partire dai gradi più bassi della rappresentanza.
La prima ragione di questo declino deriva dalla crisi della forma partito, una parabola che riguarda, con esiti e misure diverse, i principali Paesi del continente in cui i partiti faticano sempre di più a rappresentare ideali e a mediare interessi costituiti. Non si tratta di un destino inevitabile e l’impegno per il rinnovamento di questo strumento, dopo un trentennio di sbornia personalistica, è un passaggio ineludibile in quanto coincide con la rivitalizzazione dei circuiti democratici. La crisi dei partiti si intreccia, infatti, con quella ancora più grave delle forme di rappresentanza che lasciano spazio a spinte populistiche caratterizzate ovunque e non a caso da un radicale anti-europeismo. 
La potenza globale dell’economia finanziaria ha progressivamente usurato i tradizionali canali della democrazia per come si esprimevano nel quadro della sovranità  degli Stati nazionali e la competizione politica tende ad assumere una deriva oligarchica ed elitistica difficile da contenere. Tuttavia, la fine del ciclo neo-liberista e la nuova crisi finanziaria di inizio millennio hanno mostrato la necessità  di recuperare una funzione di direzione della politica giacché l’economia lasciata al furore espansivo dei suoi «spiriti animali» si è rivelata del tutto inadeguata. I «barbari», evocati come una soluzione che si consumava in una vana e inconcludente attesa nella poesia di Costantino Kavafis, sono ormai arrivati fra noi e obbligano, volenti o nolenti, a ridiscutere modi di vivere, conquiste sociali, modelli di consumo, che si credevano consolidati e che sono invece rapidamente rimessi in discussione aumentando la forbice tra i garantiti e gli smarriti, i protetti e i sopravviventi, i cittadini e le non-persone. 
In secondo luogo l’intervento di Napolitano propone una periodizzazione originale del progetto europeo: siamo arrivati oggi «a un terzo appuntamento con la storia: quello del calare – approfondendolo come non mai – il nostro processo di integrazione nel contesto di una fase critica della globalizzazione». La forza dell’unità  europea, come ha ricordato di recente un altro grande europeista come Helmut Schmidt, è stata sempre quella di riuscire ad ancorarsi a interessi concreti e visibili. Nella sua prima fase, quella della rinascita post-bellica, l’Europa si è costruita intorno all’acciaio, al carbone e alla minaccia militare sovietica. In seguito, dopo la caduta del muro di Berlino, si è riunita intorno all’interesse di una nuova moneta unica e di un mercato comune e ha saputo trovare una classe politica europea all’altezza, consapevole del significato storico di chiudere con le divisioni mortali della II Guerra mondiale e con le ferite ideologiche della Guerra fredda.
L’interesse da cui ripartire oggi è la coscienza dell’insufficienza e dell’anacronismo dello Stato nazionale dentro la competizione globale e qui sta la principale miopia elettoralistica del trio conservatore Cameron-Merkel-Sarkozy. Le nuove realtà  demografiche e tecnologiche sono formate da enormi mercati come la Cina, il Brasile, l’India e saranno loro a decidere al nostro posto se l’Europa non sarà  capace di riconoscere i propri bisogni comunitari sul terreno dell’economia, della politica, della difesa militare, della cultura, dell’istruzione e fare fronte comune per difenderli e promuoverli.
Infine, la lettera di Napolitano è importante perché il Presidente indossa anche le vesti del leader progressista, riconoscendo nel deficit della cultura riformista il male principale dei nostri giorni. Accanto ai valori del libero mercato c’è quello della «riduzione delle disuguaglianze nei punti di partenza o d’arrivo», un traguardo da raggiungere superando incrostazioni assistenzialistiche e corporative in cui l’Italia è clamorosamente indietro. 
La grande scommessa dei progressisti europei sarà  proprio questa: guidare il rilancio dell’integrazione europea in un quadro di equità , nella consapevolezza, come ha scritto Niccolò Machiavelli ne Il principe, che «non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo a introdurre ordini nuovi». Una sfida ardua, dunque, che si potrà  affrontare soltanto coinvolgendo le migliori energie in un rinnovato impegno politico e civile.

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