by Sergio Segio | 8 Dicembre 2011 16:22
DURBAN – Erano venuti a Durban per isolare l’Europa, rischiano di finire isolati. Gli Stati Uniti, che nonostante la presidenza Obama restano ostili a ogni accordo vincolante sul clima, sono stati spiazzati dal cambio di passo di Pechino. Dopo aver giocato per anni in difesa la partita climatica, pigiando a tavoletta il pedale dell’inquinamento per aumentare i fatturati, la Cina si trova ormai ad indossare un’altra maglia, quella di protagonista della rivoluzione green.
Pur restando il principale inquinatore mondiale, Pechino è anche il maggiore produttore mondiale di fotovoltaico e il leader dell’eolico. Lo scorso anno ha investito in tecnologie per l’energia pulita 50 miliardi di dollari contro i 17 miliardi degli statunitensi. E’ un paese che da una parte ha interesse a spingere il mercato della green economy e dall’altra, con la capitale assediata dal deserto e le fonti idriche a rischio, teme le conseguenze del caos climatico.
Xie Zhenhua, vice presidente della National Development e Riform Commission cinese, capo negoziatore a Durban, si è perciò presentato a Durban offrendo un quadro della situazione molto dinamico. La Cina ha migliorato la sua efficienza energetica del 19 % dal 2005 (riducendo le emissioni di 1,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica) e ha programmato un ulteriore miglioramento del 40 – 45 per cento entro il 2020. Investirà 250 miliardi di euro nei prossimi 5 anni per lo sviluppo di un’economia a bassa intensità di carbonio. Produrrà 1
milione di auto elettriche entro il 2015.
“L’accordo vincolante per ridurre subito le emissioni serra non uscirà da Durban, ma un buon obiettivo è ancora possibile”, spiega il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. “La Cina si è dichiarata disponibile a un’intesa per un taglio obbligatorio dei gas serra dopo il 2020. Ma prima di quella data si può creare un asse tra Pechino e l’Europa capace di trascinare anche Brasile, Sudafrica, Messico, Australia e Nuova Zelanda. E’ un’alleanza che disegna anche un terreno di sviluppo per la green economy: ci sono i capitali, le tecnologie e i mercati sufficienti per far fare un salto di qualità al rilancio dell’economia e alla difesa dell’ambiente”.
Se domani, alla conclusione del vertice delle Nazioni Unite sul clima, il puzzle dell’ecodiplomazia in movimento si chiuderà aprendo questo scenario, sarà difficile per gli Stati Uniti restare fuori da un mercato delle energie rinnovabili che già dal 2008 attira più capitali privati dei combustibili fossili.
L’intesa dall’alto al momento non appare possibile ma resta necessaria sia dal punto di vista del diritto (chi inquina paga) che dell’equità (non è accettabile che le piccole isole Stato vengano sommerse dalla crescita degli oceani mentre si continua a bruciare carbone e petrolio). L’intesa dal basso si sta lentamente coagulando attraverso accordi internazionali su singoli settori (dall’illuminazione efficiente alle auto elettriche) e attraverso le decisioni unilaterali di città , province, aziende, singoli cittadini che scelgono di consumare meglio. I due percorsi potrebbero intrecciarsi in un futuro non lontano.
L’unica, non trascurabile, incognita è il fattore tempo. L’accordo globale procede lentamente – e potrebbe anche incepparsi – mentre il caos climatico viaggia veloce, come il moltiplicarsi delle alluvioni disastrose provocate da piogge monsoniche ha recentemente ricordato anche all’Italia
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