Clima, l’accordo non si trova

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DURBAN — Un record negativo l’ha già  battuto, questa COP17, la Conferenza delle parti che dovrebbe (o avrebbe dovuto) concordare a Durban la strada per la salvezza dalla catastrofe ambientale: è la più lunga nella storia delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite, a partire dalla numero 1 a Berlino, nel 1995. La discussione tra le quasi 200 delegazioni ha sforato di due notti e un giorno (forse due) il tempo stabilito, ben 12 giorni, per trovare un accordo, il più condiviso e il più vincolante possibile, per ridurre le emissioni di CO2, il biossido di carbonio: 2 gradi Celsius sono il limite di sicurezza posto dagli scienziati, con riferimento alle temperature del periodo preindustriale (fino al 1750). Le attività  umane, se non convertite rapidamente all’energia pulita, contribuiranno a scaldare il pianeta almeno del doppio. I 194 Paesi presenti hanno accumulato più o meno 500 giorni di discussioni in 17 anni, per arrivare il 28 novembre scorso in Sudafrica a cercare di concretizzare quelli che potrebbero apparire facili obiettivi: stabilire che cosa fare del Protocollo di Kyoto, in scadenza fra un anno, e stabilire un piano comune che, fatte le debite differenze tra Paesi sviluppati, in via di sviluppo ed emergenti, ponga limiti più o meno inderogabili alle emissioni di CO2, fino a fissarli per legge dal 2020 in poi. E, non ultimo, istituire un Fondo verde per il clima che dia ossigeno ai Paesi più poveri e meno attrezzati per difendersi dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Facilmente approvato, almeno in linea di principio, ma ancora tutto da finanziare. La crisi geopolitica a Durban era iniziata subito, con l’annuncio del ritiro anticipato del Canada dal Protocollo di Kyoto, l’unico trattato sottoscritto dai Paesi industrializzati, legalmente vincolante sulle emissioni. Cui non vogliono più partecipare neppure Russia e Giappone. Poi il braccio di ferro tra Usa e Cina (colossi dell’inquinamento con — rispettivamente — il più alto valore di emissioni pro capite e quello in assoluto), restii entrambi ad accettare impegni tassativi dalla comunità  internazionale e più inclini a riciclarsi verso l’energia verde su base volontaria. Anche perché entrambi, come l’India, hanno compreso da tempo quanto sia appetitoso il business dell’energia verde. Ma la giornata di ieri ha portato la conferenza e i suoi disperati partecipanti sull’orlo del baratro: «Questo sistema multilaterale resta fragile — ha avvertito Maite Nkoana Mashabane, ministro sudafricano degli Esteri e presidente dell’assemblea — e non sopravviverà  a un altro colpo». Invano: sulle clausole per la messa in sicurezza del pianeta si sono abbattute richieste di emendamenti e vari tentativi di sfumare le conseguenze legali di eventuali «inadempienze contrattuali». La maratona finale ha perso vari «pezzi» per strada: a cominciare dai delegati che non potevano perdere i voli di ritorno, ma i superstiti hanno mantenuto stoicamente il ritmo, concretizzando, oltre alla promessa del Fondo verde, e al rinnovo del Protocollo di Kyoto (almeno fino al 2017, forse fino al 2020) da parte di Ue, Svizzera, Australia, Norvegia, anche il trattato che va sotto il nome di REDD+ e che promuove aiuti economici ai Paesi poveri per proteggerne le foreste. Ma è sul piatto forte della Conferenza che la discussione non finisce: quell’accordo globale che dovrebbe essere firmato nel 2015, per diventare operativo nel 2020. Se non sarà  un vero trattato, ratificato dai parlamenti nazionali, non potrà  garantire al mondo che la temperatura della Terra sia sotto controllo. O quasi. Elisabetta Rosaspina


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