Clima, la Cina «apre» sulle emissioni

Loading

La conferenza stampa, iniziata con oltre un’ora di ritardo, lasciava sperare in un annuncio diverso, in una svolta storica nel braccio di ferro fra i due colossi più inquinanti della Terra, impegnati a studiarsi come due lottatori di sumo. Niente di fatto, invece. Durban, sulla costa sudafricana dell’Oceano Indiano, si approssima a diventare la tomba di molte speranze degli esperti di clima riuniti da dieci giorni alla 17esima Conferenza delle Parti per trovare un accordo globale nella lotta alle emissioni di biossido di carbonio (CO2). Strano, perché sarebbe nell’interesse di tutti evitare che la febbre del pianeta salga ancora di oltre 2 gradi Celsius, il tetto massimo per evitare la catastrofe ambientale.
È una partita complicata, che si gioca in diverse categorie: i Paesi industrialmente già  sviluppati, responsabili dei gas a effetto serra scaricati nell’atmosfera negli ultimi 200 anni; i Paesi in via di sviluppo, che spesso sono quelli che maggiormente soffrono delle conseguenze di quelle emissioni e dei cambiamenti climatici (sotto forma di siccità , carestie o, all’opposto, inondazioni e uragani), ma che ancora dipendono dai carburanti fossili per consolidare le loro economie. Poi c’è il girone infernale dei Paesi poveri, che non hanno possibilità  concrete di guadagnare altro che miserie dal riscaldamento globale, se le nazioni più ricche non mettono mano al portafogli per creare il Fondo Verde per il clima. E in campo ci sono anche gli Stati che aderiscono al Protocollo di Kyoto, in scadenza tra un anno, quelli che l’hanno firmato, ma non ratificato (come gli Stati Uniti) e quelli che vogliono uscirne al più presto, come il Canada. Senza contare quelli che vogliono disperatamente un Kyoto 2, come le Nazioni Unite e l’Unione Europea.
La posizione italiana è espressa dal ministro dell’Ambiente, Corrado Clini: «Così com’era, il Protocollo di Kyoto è finito. Nessun Paese firmatario intende prorogarlo. E il passo indietro degli Usa non fa che indebolirlo ulteriormente. Kyoto 2 potrebbe essere un’ipotesi di transizione di 2-3 anni, in vista di un accordo globale, una strada che ci aiuti a uscire dai guai in cui ci ha messo la Conferenza di Copenaghen». Ma Clini è a Durban soprattutto per la Cina. Questa mattina incontrerà  il capo delegazione di Pechino: «Rilanceremo la cooperazione Italia-Cina — annuncia — per rafforzare la piattaforma tecnologica energetica tra Europa e Cina, in particolare sulle fonti rinnovabili, ma anche tra Europa e Brasile».
Mancano tre giorni scarsi alla conclusione della Conferenza e l’ombra di un fallimento atterrisce il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che ieri sera ha quasi implorato i 15 mila partecipanti, a vario titolo (negoziatori, delegati, osservatori, organizzazioni non governative, scienziati): «Senza esagerare possiamo dire che il futuro del nostro pianeta è in gioco».
La Cina ha dimostrato di impegnarsi nel frenare le sue emissioni, quasi il 24% di quelle prodotte annualmente da tutto il pianeta, e glielo riconosce anche la pagella annuale di Germanwatch e di Climate Action Network Europe. Ed è pure vero che, a livello individuale, un cinese inquina molto meno di uno statunitense: mediamente 5,5 tonnellate di anidride carbonica all’anno contro 23,4 all’anno. Quindi Pechino è pronta ad accettare vincoli internazionali solamente se prima lo fa Washington (e viceversa), mentre non ha bisogno del permesso di nessuno per rafforzarsi come la nuova potenza dell’economia e della produzione tecnologica «verdi». Prima che sia l’India a prenderle il posto.


Related Articles

L’Impotenza e le colpe di fronte alla natura

Loading

Se l’uomo è vittima e protagonista dei disastri «Qui, su questa antica costa di Liguria, tutto è pietra, terra arsa, silenziosa durezza, vampa».

2015, dimezzare la sete del mondo

Loading

Ogni anno sei milioni di persone muoiono per carenza idrica

Addio alle centrali atomiche si punta sulle rinnovabili e in Borsa volano i titoli verdi

Loading

MILANO – È stato il quesito che ha raggiunto il maggior numero di “no”. Ma quel 5,3% di italiani che hanno, comunque, votato a favore del ritorno al nucleare sono in ogni caso ben poca cosa, seppelliti da quel 94,7% che dovrebbe aver sancito il definitivo addio all’atomo. Ad essere state abolite dal terzo quesito sono le norme che avrebbero consentito la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment