Clima, bene comune

by Editore | 24 Dicembre 2011 7:21

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E la questione dell’equità  resta inaggirabile: anzi, un editoriale su Down to Earth, il magazine pubblicato in India dal Centre for Science and Ecology, afferma che l’equità  è «la prossima frontiera» del negoziati sul clima.
In effetti il grande nodo dei nagoziati che si trascinano ornai da diversi anni è come dividere la responsabilità  di tagliare le emissioni tra i paesi industrializzati ed economie «emergenti» come la Cina e l’India (e poi il Brasile, il Sudafrica e via via se ne aggiungeranno). Perché nel ’92, quando fu definita la «Convenzione delle Nazioni unite sul cambiamento del clima», l’intera comunità  internazionale accettò il principio delle «responsabilità  comuni ma differenziate», e non c’era molto da discutere: allora i paesi industrializzati facevano insieme il 70% delle emissioni annuali di gas di serra, e la Cina, che pure aveva un quarto della popolazione mondiale, ne faceva il 10%. Così nel 1997 il Protocollo di Kyoto, unico trattato internazionale in materia di clima, ha imposto tagli obbligatori delle emissioni ai soli paesi industrializzati, proprio per la loro maggiore responsabilità .
Ora invece sembra tutto capovolto. Vent’anni dopo, la Cina ha superato gli Stati uniti come «primo emettitore» e ormai conta per il 27% delle emissioni mondiali. L’India segue da presso, mentre i paesi industrializzati sono ridotti al 43% del totale. Dunque avrebbero ragione gli Stati uniti e i loro alleati, che rifiutano un nuovo trattato sul clima se non impone una responsabilità  anche a Cina e India? (Gli Usa per la verità  sono allergici ai trattati vincolanti e caldeggiano un sistema di impegni «volontari»). Il fatto è che la percentuale dei paesi industrializzati è scesa, ma non perché abbiano ridotto le loro emissioni (anzi: solo nel migliore dei casi sono stabilizzate, mentre paesi come il Canada e l’Australia le hanno aumentate del 20 e 43% rispettivamente): solo che i grandi paesi «in via di sviluppo» hanno in effetti cominciato a crescere e quindi a emettere di più. «La competizione per lo spazio atmosferico ora è reale», scrive Sunita Narain su Down to Earth: i paesi industralizzati non hanno ceduto spazio ma i paesi di più recente crescita economica hanno cominciato a occuparne a loro volta. La responsabilità  resta differenziata, sostiene l’attivista indiana. Perché, aggiungiamo, chi dirà  ai cinesi, gli indiani e a tutti gli altri cittadini di paesi meno ricchi che non hanno diritto a un po’ di benessere – noi abbiamo già  inquinato troppo dunque ora loro devono limitarsi? Il cambiamento del clima «non è solo un problema di contributi presenti ma passati. Lo stock di gas di serra nelll’atmosfera ha lunga vita. Questo significa che ogni discussione su come la torta del carbonio vada divisa, deve tenere conto dei gas emessi in passato e tuttora presenti», insiste Narain. La Cina conta per il 27% delle emissioni annuali di oggi, ma se presa in termini cumulativi dal 1950 conta per l’11%. L’India oggi fa il 6% annuale, ma il 3% dal 1950. Mentre i paesi industrializzati restano responsabili del 70% dello stock accumulato dal 1950. 
«E’ per questo che gli Usa e la loro coalizione hanno fatto di tutto per cancellare ogni riferimento alle emissioni storiche dai testi» negoziali, nota Narain – che definisce Durban «il nafdir dei negoziati sul clima». E conclude: «Per evitare cambiamenti catastrofici è essenziale un accordo collaborativo. E la cooperazione non è possibile senza equità  e giuistizia».

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