Cinquant’anni con i turchi
Sono stato testimone di questo processo fin dal primo giorno. Non ero arrivato in Germania con uno dei primi contratti del patto di reclutamento, ma come studente. Tuttavia ero consapevole della mia responsabilità sociale e, come giovane scrittore convinto che al centro della letteratura dovessero stare gli esseri umani e il loro ruolo nella società , diedi il mio contributo raccontando la vita quotidiana delle persone che lottavano per integrarsi. Il fatto di essere uno di loro mi dava qualcosa in più: avevo due paesi, due società , due storie e due lingue a cui attingere per rappresentare il punto di vista di ognuno.
Per quel che ho potuto osservare e sperimentare direttamente in questi ultimi cinquant’anni, il processo di integrazione ha attraversato varie fasi. Prima sono venuti gli anni della buona volontà e dell’accettazione (tra il 1961 e il 1973), terminati con la legge per bloccare l’immigrazione dei lavoratori stranieri (Anwerbestopp) e il dibattito su rotazione-integrazione (tra il 1973 e il 1981). Poi è stata la volta degli anni della stabilità e dell’impegno per l’integrazione (dal 1981 al 1990), finiti anche questi con l’unificazione della Germania. Dopo gli anni dell’esclusione (tra il 1990 e il 2000), si è riacceso il dibattito sull’integrazione (tra il 2001 e il 2011).
I primi lavoratori immigrati, in larga parte uomini giovani e sani, furono accolti con grandi cerimonie di benvenuto alle stazioni ferroviarie di Monaco, Stoccarda, Colonia e altre grandi città , e da lì accompagnati ai loro luoghi di lavoro e ai loro alloggi. Inutile dire che non avevano la minima idea di cosa volesse dire vivere e lavorare in Germania, o di quali fossero le leggi e la cultura del paese, né parlavano una parola di tedesco. Prima del loro arrivo i turchi in Germania erano pochi: qualche centinaio di studenti, alcuni diplomatici e imprenditori, e un gruppetto di avventurieri. Anche se può sembrare un cliché, gli immigrati provenivano effettivamente dalle zone agricole più arretrate della Turchia, dove ancora si lavorava la terra con i buoi e l’aratro. Da lì arrivavano dritti nel cuore industriale della Germania, senza avere fatto neppure una sosta nelle province turche occidentali, e con le pesanti valigie di legno che erano il marchio di fabbrica dell’immigrato.
Il viaggio in treno da Sirkeci a Monaco o altre città tedesche durava due o tre giorni. Durante il tragitto si incontravano persone provenienti da tutta l’Anatolia, nascevano amicizie e si condividevano pasti. Molti di quei rapporti finivano con l’arrivo alla stazione, ma in qualche caso ci si teneva in contatto per lettera, dando sfogo alla comune nostalgia.
La stazione era il primo approdo dell’immigrato in Germania, il suo primo impatto con il nuovo paese. Nei primi anni serviva da punto d’incontro, dove ci si dava appuntamento nei fine settimana per scambiarsi racconti e stare insieme. Era anche il luogo dove si poteva sentire il legame con il paese d’origine, attraverso i binari della ferrovia. Le stazioni venivano usate come sostituti di una infrastruttura che ancora non esisteva. Con la nascita di caffè, ristoranti, centri culturali, associazioni locali e moschee, le stazioni hanno perso gradualmente d’importanza.
All’inizio, i tedeschi erano molto curiosi dei nuovi arrivati dall’Anatolia: come recita un verso del Faust, erano “quei popoli lontani, in Turchia”. Ma proprio per questo erano anche “gli altri”. In tempi di stagnazione economica potevano facilmente diventare troppo stranieri.
I primi lavoratori arrivarono con contratti di lavoro firmati in Turchia, prima di partire. Quelli giovani e in salute non ebbero difficoltà ad abituarsi al nuovo stile di vita e alle condizioni di lavoro. Quando un paio d’anni dopo i loro contratti cominciarono a scadere, le aziende e i sindacati non volevano rispedirli a casa: lavoravano sodo e si adattavano, senza aspettarsi in cambio altro che un lavoro che gli desse da vivere. Erano umili, rispettosi, semplici e senza pretese. Avevano imparato a parlare un po’ di tedesco e lo usavano nella vita di tutti i giorni.
Datori di lavoro e imprese apprezzavano molto i lavoratori turchi, e continuarono a richiederne finché la domanda di manodopera continuò ad aumentare. Non fu un problema rispedirli in Turchia durante la breve recessione del 1966-1967: sapendo che ci sarebbe stato ancora bisogno di loro, le aziende promisero di richiamarli quando la situazione fosse migliorata. E mantennero la promessa.
Mentre i turchi di prima generazione furono rapidi ad adattarsi, le imprese e le autorità tedesche non erano affatto pronte a garantire agli immigrati condizioni di vita adeguate, o a soddisfare le loro necessità quotidiane. Solo dopo qualche tempo le istituzioni tedesche ebbero l’idea di assumere degli interpreti: le prime furono le banche e altre aziende che avevano un interesse per i soldi guadagnati dagli immigrati.
Dopo la breve recessione della seconda metà degli anni sessanta, le aziende tedesche cominciarono ad assumere donne turche in industrie del ramo tessile ed elettronico. Non solo i salari femminili erano più bassi di quelli degli uomini, ma le donne avevano mani più adatte a svolgere quelle mansioni.
Questo causò un cambiamento profondo e quasi rivoluzionario nella società turca, dov’erano in tanti a volersi trasferire in Germania: ora mariti, padri e fratelli potevano farlo grazie alle mogli, figlie e sorelle. Dopo un anno di lavoro in Germania, le lavoratrici potevano fare arrivare gli uomini di famiglia. Uomini che prima non consentivano alle donne di uscire di casa senza una compagnia maschile, ma che ora erano disposti a lasciarle andare in Germania da sole, con buona pace della preoccupazione per la castità femminile, così profondamente radicata nella mentalità patriarcale.
L’arrivo delle lavoratrici modificò anche la percezione della società tedesca nei confronti degli immigrati: l’immagine del “maschio turco” era cambiata e la manodopera femminile era sempre più apprezzata. Di conseguenza, nel resto della società le reazioni negative all’immigrazione si ridussero notevolmente.
Il miracolo economico tedesco era già in declino nel 1973, quando il paese fu colpito dalla crisi petrolifera globale. Con la disoccupazione in aumento, il parlamento tedesco varò una legge che bloccava il reclutamento di lavoratori immigrati, il cosiddetto Anwerbestopp. Il blocco doveva principalmente impedire l’afflusso di altri immigrati dalla Turchia. L’autunno del 1973 segnò una svolta, perché i lavoratori turchi cominciarono a trasformare i loro permessi di soggiorno temporanei in permanenti. Il colpo di stato militare del 12 marzo 1971 in Turchia aveva messo a repentaglio le speranze dei turchi in una vita migliore. Di conseguenza, gli immigrati che già lavoravano in Germania cominciarono ad avvalersi sempre più spesso del diritto al ricongiungimento familiare sancito dalla costituzione tedesca, facendo arrivare coniugi e figli dalla Turchia.
Durante la breve crisi economica del 1966-1967 c’erano già state le prime reazioni negative della società tedesca nei confronti dei turchi. La crisi cominciata nel 1973 le inasprì. Anziché assumersi le sue responsabilità , il governo se la prese con gli immigrati turchi, favorendo un’ondata di manifestazioni di protesta e incitazioni all’odio, esemplificate dallo slogan “Tà¼rken raus!”: turchi, tornatevene a casa!
Intanto, il dibattito tra rotazione e integrazione si faceva sempre più incandescente. “Rotazione” significava che i politici e le aziende potevano sbarazzarsi dei disoccupati turchi come e quando volevano: tornate nel vostro paese, vi richiameremo se avremo bisogno di voi. Alla testa di questa campagna c’era il presidente del Baden-Wà¼rttemberg, l’ex nazista Hans Filbinger. Il dibattito è sempre stato demagogico. La polemica serviva solo a distrarre gli elettori dai temi più seri e urgenti. Il richiamo all’integrazione era solo uno slogan.
Quando la crisi del 1973-1974 cominciò ad attenuarsi, ci fu di nuovo bisogno di manodopera in diversi settori, come nell’industria automobilistica e in quella dello spettacolo. Il mercato nazionale non riusciva a soddisfare la domanda, ma l’Anwerbestopp era ancora in vigore. I sindacati si opponevano a qualsiasi modifica di quella legge, e i politici che durante la crisi avevano strumentalizzato il problema degli immigrati non volevano fare marcia indietro.
L’unico modo per aggirare la legge era l’asilo politico. I turchi arrivavano con un visto turistico, e una volta in Germania presentavano la domanda di asilo. C’erano avvocati specializzati che aspettavano i clienti nei loro studi, tra pile di domande di asilo. Un interprete compilava la domanda, in cambio di almeno cinquecento marchi, e l’avvocato la presentava alle autorità . Finché la pratica non giungeva a conclusione, il richiedente era autorizzato a fare qualsiasi lavoro riuscisse a trovare. Anche i turchi già immigrati usavano questo metodo per fare arrivare parenti e amici dalla Turchia.
Nel 1981 la Germania fu colpita da una nuova recessione. L’asilo era un diritto costituzionale che non si poteva abolire, e il tempo di evasione di una pratica era di circa un anno. Ci voleva un’altra misura preventiva. La soluzione fu quella di vietare i permessi di lavoro per chi aveva chiesto asilo: ora non potevano più lavorare mentre aspettavano l’esito della domanda. Inoltre, furono introdotti specifici requisiti per il visto dei cittadini turchi. E quelli disposti a tornare in Turchia per sempre, potevano riscuotere l’intera somma dei contributi già versati per la previdenza. “Una buona parte dei turchi deve tornarsene a casa”, diceva il cancelliere Helmut Kohl.
A metà degli anni ottanta, per i turchi rimasti in Germania cominciò un periodo di stabilità e di accettazione, che però si interruppe bruscamente con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il 3 ottobre 1990. Da un giorno all’altro, l’attenzione politica ed economica si spostò verso la Germania orientale e altri paesi dell’Europa centrale e dell’est. Dal punto di vista del diritto internazionale l’unificazione era completa: ora bisognava realizzare la più difficile e costosa integrazione economica, sociale e culturale.
Nel corso di questo processo, ci si dimenticò della convivenza di turchi e tedeschi. Intanto i gruppi razzisti godevano di una nuova autonomia: città come Mà¶lln, Solingen, Hoyerswerda e Rostock diventarono centri di attività razzista. I turchi della generazione più giovane, nata, cresciuta e riconosciuta dallo stato in Germania, non si sentivano più accettati come parte integrante della società . E visto che non erano considerati tedeschi, cominciarono a cercare nuove identità .
Dal 2000 in poi, il problema degli immigrati è tornato di attualità . Le nuove leggi sull’immigrazione ignorano quasi completamente i bisogni dei lavoratori stranieri. La politica di esclusione degli anni novanta ha creato una divisione visibile nella società : l’inadeguatezza dei programmi di scolarizzazione e formazione professionale, e allo stesso tempo la proliferazione dei circoli religiosi fondamentalisti, hanno lasciato la loro impronta per le strade e nei rapporti interpersonali. E i politici tedeschi stanno di nuovo premendo per l’adozione di una “cultura primaria”. “Adattatevi o andatevene!” è la tesi di Thilo Sarrazin, tanto per fare un esempio.
Integrazione significa piena assunzione di diritti e doveri. Il metodo migliore per realizzarla, e forse l’unico, è garantire pari opportunità di istruzione e occupazione: un metodo valido per tutte le parti sociali, non solo per gli immigrati e i loro figli. In cambio, ognuno è tenuto a rispettare la costituzione e le leggi di una società democratica. Solo così è possibile una convivenza pacifica che non sacrifichi le differenze culturali e la diversità .
La coesistenza pluralistica è il miglior sistema liberale. E la maggioranza degli immigrati turchi è pronta per un sistema di questo tipo, con tutto quel che comporta. Per la verità , lo è sempre stata.
Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 928, 16 dicembre 2011
Yà¼ksel Pazarkaya è un giornalista turco che vive in Germania. Questo articolo è uscito sul giornale turco Varlık e, in inglese, su Eurozine, con il titolo “Traces that won’t go away”.
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