Cina. L’armonia che manda in bestia

by Sergio Segio | 10 Dicembre 2011 9:20

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Arginata l’inflazione, adesso l’emergenza riguarda salari e disoccupazione. Ma i guai del resto del mondo non aiutano Che cosa rischia oggi di destabilizzare maggiormente la società  cinese, l’inflazione o la disoccupazione accompagnata dall’abbassamento dei salari? Il cruciale dilemma deve avere molto tormentato negli ultimi tempi i vertici di Pechino, giunti infine alla conclusione che la prima delle due bestie nere è stata quanto meno sedata ed è tempo di affrontare la seconda, che imperversa e accende scioperi e rivolte. Da qui l’allentamento dei vincoli sui prestiti bancari (una iniezione di liquidità  pari a 50 miliardi di euro) nella speranza di far ripartire un’economia che, pur sempre in corsa, ha cominciato a inciampare nei guai del resto del mondo. La Cina constata oggi che per cambiare asse di sviluppo e passare da un’economia sospinta dall’export a una alimentata dal consumo avrebbe bisogno di più tempo. Ma il paese va troppo veloce per poter domare le sue dinamiche interne, economiche, sociali e politiche, sempre più accelerate da intoppi strutturali che richiederebbero interventi profondi. Così la nuova fase somiglia, nelle misure con cui si cerca di arginarne i rischi, a quella precedente, avviata all’esplodere della crisi globale nel 2008 . Ma non si può ripetere lo stesso copione in uno scenario stravolto dalla rotta disordinata dell’Europa in fallimento e dall’affanno degli Usa entrati ormai in fase elettorale. Le dinamiche internazionali rendono dunque assai più incerto che nel 2008 l’esito della nuova fase di rilancio dell’economia in Cina. Di conseguenza, considerato lo stretto legame tra il dentro e il fuori che da sempre condiziona l’avanzata cinese, il rovello della stabilità  sociale interna ha ripreso ad assillare la leadership, alla vigilia del passaggio di poteri che ne cambierà  i connotati (almeno quelli fisici). Sono ripartiti scioperi e proteste ma diversamente dalla grande sollevazione operaia del 2010 che si batté per aumenti salariali notevoli e il riconoscimento del diritto ad avere rappresentanze sindacali elette, e li ottenne, quelle venute alla cronaca negli ultimi tempi sono soprattutto battaglie di resistenza all’arretramento. Contro la riduzione degli straordinari e l’erosione dei salari , contro la dislocazione delle fabbriche e i licenziamenti. E come in ogni momento nevralgico è partito l’allarme ufficiale. Zhou Yongkang, gran capo dell’ordine pubblico, il 2 dicembre si è rivolto ai funzionari provinciali convocati a Pechino per un seminario sulla social management innovation incitandoli a trovare modi migliori per gestire «gli effetti negativi dell’economia di mercato», cioè i conflitti sociali che questa genera. Eppure sono anni che la costruzione della società  armoniosa via social management è all’opera. Prima si chiamava wei wen, mantenimento della stabilità , avviato alla fine degli anni ’90 dopo le grandi rivolte operaie contro i licenziamenti seguiti alle privatizzazioni, Nel 2004 la strategia è stata potenziata. Le Olimpiadi la rendono più efficiente, più sofisticata. Si materializza in un enorme apparato la cui panoplia di strumenti comprende censura e controllo di Internet, repressione degli oppositori più accesi, una fitta rete di informatori, corpi speciali di sicurezza, sistemi di videosorveglianza capillari. Forte pressione è esercitata sulle organizzazioni di partito e i governi locali, premiati o puniti a seconda che riescano o meno a mantenere gli obiettivi di “armonia sociale” contenendo le proteste e il malcontento anche nelle loro forme meno aggressive, come le petizioni. Un apparato costoso, se in bilancio le spese per la sicurezza interna (oltre 70 miliardi di euro) ormai superano quelle per l’esercito. L’esplosione delle “primavere arabe” provoca un nuovo giro di vite e ulteriori preoccupazioni. Il 19 febbraio 2011 in una riunione alla scuola centrale del partito il presidente Hu Jintao esorta a «capire correttamente i nuovi cambiamenti e le caratteristiche della nuova fase, interna e internazionale». È in quella occasione che lo stesso Zhou Yongkang raccomanda di «stroncare sul nascere conflitti e dispute». Con una leadership preoccupata solo dell’autoconservazione del sistema, nel timore di una disintegrazione di tipo sovietico, sono caduti nel vuoto persino gli appelli più ragionevoli di chi chiede di istituire dispositivi e regolamenti efficaci che consentano l’espressione dei legittimi interessi di una società  sempre più diversificata. Pensare di gestirli con un apparato che li criminalizza e li soffoca, può solo esasperare gli animi. (Si veda l’appello di un gruppo di sociologi cinesi pubblicato su Le Monde diplomatique, luglio 2011). La maggioranza dei cinesi non medita lo scardinamento del sistema, né lo prepara. Non foss’altro che per mancanza di alternative. Però è innegabile che la “nuova fase” si manifesta oggi con intrecci che coinvolgono tutti gli strati sociali in modi impensabili solo 3 anni fa. Gli operai migranti che hanno spinto il carro sperando di salirci presto sopra temono oggi di essere lasciati per sempre a terra, la piccola borghesia urbana vive nuove ansie di aspettative crescenti frustrate (come l’acquisto di una casa reso impossibile dalla follia speculativa), persino i ricchi cominciano a temere e portano soldi e famiglie all’estero. Si incrinano i miti dell’arricchimento, necessari ad alimentare la mitologia dello sviluppo. Una crisi di sfiducia, si direbbe, che non è (ancora) l’anticamera del sovvertimento del sistema ma piuttosto di una resistenza sorda, socialmente cinica e violenta, che già  emerge dalle cronache quotidiane. Un lascito fallimentare per la leadership che predicava l’armonia.

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